Delocalizzazione, il grande ritorno delle aziende: il Veneto guida la classifica del reshoring

Già 54 imprese hanno riportato qui la produzione, al secondo posto l’Emilia Romagna si ferma a 28. Settimo il Friuli Venezia Giulia con sette 

La globalizzazione non è morta, ma sta cambiando volto. Puntando su una maggiore vicinanza della catena che dalla produzione arriva fino alla distribuzione e al consumo, anche a costo di contribuire a una crescita strutturale dell'inflazione. Si può sintetizzare così lo scenario che emerge dalle indagini più recenti in materia, che interessano in maniera particolare le aree con maggiore vocazione industriale, come il Nordest d'Italia.

Secondo lo studio "Processi di reshoring nella manifattura italiana", realizzato dal Politecnico di Milano in collaborazione con Alsea (Associazione Lombardia Spedizionieri e Autotrasportatori), il Veneto è la regione italiana maggiormente impattata da questo fenomeno.
Sono infatti ben 54 le imprese che hanno scelto di rilocalizzare i propri stabilimenti produttivi puntando su una maggiore vicinanza.

L'Emilia-Romagna, seconda in classifica, è molto distante, dato che si ferma a quota 28, mentre a chiudere il podio è la Lombardia (22). Il Friuli Venezia Giulia si colloca, invece, al settimo posto (7 rilocalizzazioni) e anche in questo caso si tratta di un risultato rilevante, a considerare le dimensioni dell'economia regionale. In questo caso, la scelta ha riguardato in tutti i casi grandi aziende, mentre in Veneto si contano anche 12 imprese di medie dimensioni a 9 di piccole, oltre alle 33 grandi.

Mentre a livello di vecchie localizzazioni delle fabbriche, in Veneto al primo posto c'è l'Asia davanti all'Europa (20 e 18 casi registrati), mentre in Friuli Venezia Giulia il Vecchio Continente prevale 5 a 1. Dunque il Triveneto, tradizionale terra di frontiera, sta pagando più di altre i limiti della globalizzazione emersi con lo scoppio della pandemia e rafforzartisi con la ripresa economica che ne è seguita.
Qualche esempio? Strozzature in fase di produzione a causa di scelte differenti dei vari Paesi per contrastare il Covid (ad esempio la tolleranza zero decisa dalla Cina ha fermato numerose fabbriche nella seconda economia del mondo), limiti alle esportazioni decisi a livello nazionale durante le fasi più dure della pandemia, difficoltà nel reperimento di componenti e materiali necessari alla produzione, fino alla cessazione delle vendite all'estero.

Il risultato è che le catene del valore si sono inevitabilmente accorciate, con le produzioni che oggi sono sempre più vicine ai mercati di destinazione finale delle merci. Con la conseguenza che produrre in Est Europa (per fare un esempio) costa più che farlo in Vietnam: pertanto, anche se l'azienda ha un maggiore controllo della filiera, la conseguenza è che deve fare i conti con costi più elevati. Che si sommano al caro-energia e all'inflazione prodotta dalla transizione energetica, dando vita a una spirale di rialzo dei prezzi relativi ai beni di consumo difficile da fermare.

Il 30% delle imprese italiane che in passato hanno delocalizzato, ha dichiarato di aver già realizzato un cambiamento nella propria strategia di localizzazione. Quanto alle ragioni della rilocalizzazione, le 700 imprese che hanno preso parte alla ricerca hanno indicato soprattutto il valore del "made in Italy" (possibilità di proporre un prodotto con origine nella Penisola, con tutto ciò che ne deriva in termini di valore sui mercati globali), il miglioramento del servizio alla clientela e la scarsa qualità delle produzioni delocalizzate.

La strada sembra segnata e difficilmente si tornerà indietro, anche se non mancano le difficoltà, soprattutto attinenti alla burocrazia, al sistema giudiziario e alla pressione fiscale. Di fatto il processo di ritorno a casa delle produzioni è ormai avviato.

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