Attrazione di talenti e modello di sviluppo

La ridefinizione di un nuovo modello di sviluppo dell’economia territoriale del Veneto e del nordest dovrebbe essere la priorità per tutti i soggetti istituzionali, politici, d’impresa e sindacali, perché il rischio che corriamo è esattamente quello dell’esaurimento del vecchio senza aver per tempo predisposto un nuovo sistema dell’impresa e del lavoro, a partire dalla manifattur
Gabriele Scaramuzza

Nel proprio intervento di pochi giorni fa titolato “Il nordest nella trappola dello sviluppo” Giancarlo Corò metteva in guardia gli attori politici, economici, sociali dal rischio che corre oggi l’economia veneta – insieme a quella del nordest – di ripensare il proprio modello di sviluppo, essendo il precedente giunto ormai a maturazione ed esposto al ridisegno della globalizzazione per grandi aree geo-economiche. Nello stesso intervento si ammoniva sul fatto che affidarsi alla ricchezza accumulata in passato, aggiungendo solo un po’ di turismo e artigianato, sarebbe un imperdonabile errore.

In effetti, la ridefinizione di un nuovo modello di sviluppo dell’economia territoriale del Veneto e del nordest dovrebbe essere la priorità per tutti i soggetti istituzionali, politici, d’impresa e sindacali, perché il rischio che corriamo è esattamente quello dell’esaurimento del vecchio senza aver per tempo predisposto un nuovo sistema dell’impresa e del lavoro, a partire dalla manifattura.

Ciò che abbiamo di fronte invece, è una campagna elettorale tra le più rapide e convulse della storia repubblicana, in cui ancora una volta l’inclinazione allo slogan e alla semplificazione prevarranno sulla capacità di elaborare pensieri lunghi in grado di salvaguardare, per quanto possibile, il tessuto economico e sociale dei territori. Prima semplificazione, naturalmente, la politica della “tolleranza zero” nei confronti dell’immigrazione, quando è ormai dato di realtà che la galassia delle imprese venete come pure di buona parte del nord si regge proprio sull’esercito di riservadi lavoratori immigrati ed extracomunitari.

L’altro grande pericolo, in Veneto, è quello della rimozione o, meglio, della sostituzione di questa necessità di elaborazione con un feticcio, quello dell’autonomia, che certamente sarà uno dei mantra della prossima campagna elettorale. In effetti, ciò cui verosimilmente assisteremo è, stante l’incapacità dell’attuale classe di governo regionale di mettere la testa su uno sforzo vero di ridefinizione del modello di sviluppo e della costruzione di una strategia di alleanze sociali orientata a tal fine, l’ennesima invocazione dell’autonomia come sacro graal in grado di risolvere ogni e qualsiasi questione, su cui campare poi una rendita politica.

Beninteso, nessuno si sottrae ad una riflessione seria e concreta sul potenziamento delle autonomie – a partire da quelle locali, dei comuni e delle aree metropolitane prima che delle regioni – ma l’urgenza oggi è proprio quella di mettere in campo una strategia per affrontare al meglio i cambiamenti cui va incontro un’economia ormai matura come quella veneta.

Per fare questo è necessario prima di tutto investire sulla qualità del lavoro (lo dimostra anche la recente indagine di Confartigianato fra i propri apprendisti) e sulla sua sicurezza, aiutando le imprese a trattenere i talenti che qui si formano rimanere sui territori e a non andare altrove (il Veneto è campione in negativo per emigrazione dei propri neolaureati) con politiche di incentivazione al reddito; investire in maniera pesante sulle infrastrutture tecnologiche e sulle reti di connessione, che oggi costituiscono uno degli elementi di vantaggio della competizione su scala continentale; immaginare per l’economia veneta un mix in cui essa non sia solamente l’ultimo anello di una catena globale del valore, che la crisi internazionale oggi in corso modificherà per gli anni a venire.

Ecco, proviamo a discutere e confrontarci, con serietà, su queste cose, nelle prossime settimane.

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