L’unico suono è il vento fra le pietre

Sud del Libano: il ragazzo, il bambino e il pilota italiano Un attacco aereo e quella domanda nel vuoto: si può perdonare la morte?

Antonella Sbuelz
Un giovane pastore sulle colline vicino ad Aytoule, nel Libano meridionale (Melissa Wall / Flickr)
Un giovane pastore sulle colline vicino ad Aytoule, nel Libano meridionale (Melissa Wall / Flickr)

Sud del Libano. Nonostante il peso sulle spalle, il ragazzo cammina spedito. Il corpo esile, l’espressione adulta sotto i capelli sudati. Non ha più di quindici anni.

Al cancello, come ogni giorno, ha scambiato un cenno di saluto con il soldato di guardia, poi ha imboccato il sentiero che si snoda tra le costruzioni basse, disposte nella geometria ordinata della piccola base militare. I suoi piedi conoscono la strada, ma cercano istintivamente l’ombra proiettata da pini e cipressi.

Non sono ancora le otto e mezza, ma l’azzurro abbagliante del cielo sembra schiacciare verso terra un’aria tersa e gonfia di calura. Lontano, oltre le colline, le cime più alte dei monti sono avvolte in un velo di foschia. Un mulinello di vento solleva polvere e sabbia, fruscia alcuni istanti nella luce e atterra ai piedi di un ginepro. La scia di vapore di un aereo traccia una secca ipotenusa.

Schermandosi gli occhi con la mano, il ragazzo segue con lo sguardo la sagoma color argento vivo. Da bambino, ha imparato dal nonno a distinguere i voli degli uccelli: il librarsi maestoso degli aironi, i cerchi alti dei nibbi, le picchiate fulminee dei falchi.

Ma da allora è trascorso tanto tempo: quasi metà della sua vita. E ora ha imparato altri voli: gli intercettori, i caccia, i bombardieri, gli aerei da addestramento, gli aerei da ricognizione. Ognuno ha un suo rombo distinto, un suo modo di decollare, una sua rotazione, un suo assetto. In questo cielo fra montagne e mare, ogni velivolo ha il suo ruolo.

“Marhaba, Omar!”, lo saluta un soldato.

“Buongiorno, pilota!”, fa il ragazzo, sfilandosi le cinghie dalle spalle.

“Mi chiamo Andrea”, replica il soldato, abbassandosi gli occhiali a specchio.

“Ma pilota è più meglio che Andrea.”

È questo il loro rito quotidiano. Una sequenza di gesti che compone una trama familiare: Omar che si avvicina. Il pilota che gli va incontro e lo aiuta a sfilarsi dalla schiena il contenitore di metallo rigato da polvere e gocce e imbragato tra scapole e collo. Il reciproco scambio di saluto in arabo e in italiano. Il latte, a svitare il coperchio, si espande in tracce olfattive: sa di fresco, di infanzia, di buono.

Sa di casa e di normalità. E di normalità si è più assetati, se si è lontani da casa.

Da quasi sette settimane Omar, dal suo villaggio a sud, raggiunge quella base militare: dieci litri di latte sulle spalle, la determinazione in ogni passo e negli occhi l’orgoglio consapevole di chi sa di essere utile al suo mondo. È il più grande di cinque fratelli, e dopo la morte del padre dare una mano in casa tocca a lui.

L’uomo gli allunga le monete, le accompagna con un sacchettino bianco da cui si sprigiona un profumo che coccola naso e palato.

Nel sacchettino bianco, sei brioche. Una di loro ha sempre vita breve. Omar sfila dal sacchetto una brioche, addenta l’impasto ancora caldo e il suo cuore di crema di pistacchi.

“Buona?”, domanda il pilota.

“Buonissima”, fa Omar masticando.

“Porta le altre fino a casa. E danne una anche a Samer!”

Il ragazzo alza gli occhi al cielo, sbuffa: “Mio fratello Samer va d’accordo solo con le capre”.

“Capre o non capre, una brioche è sua! Questo, invece, è per te…” aggiunge l’uomo ammiccando e lanciandogli al volo un pacchetto.

“Che cos’è?”

“Se lo apri lo saprai.”

Il ragazzo strappa la carta ed estrae con dita impazienti il contenuto azzurro della busta, sgranando gli occhi in un brillio sorpreso:

“Ma questa… questa è la maglia di Jorginho, centrocampista della Nazionale italiana!”

La maglietta gli sventola addosso. Troppo larga, sul suo costato magro. Troppo grande di almeno due taglie. Troppo lunga: gli arriva a metà coscia. Ma Omar la trova perfetta. Proprio perfetta, per lui.

“Shukran. Grazie, pilota.”

“Beh, non me l’hai detto tu che il tuo sogno è diventare un calciatore?”

“Sì”, e il suo tono si fa grave. “Diventerò un altro Jorginho, se è anche la volontà di Allah.”

Poi sollevano in sincrono una mano: palmo nudo contro l’altro palmo nudo. Una rapida pacca d’intesa: la grammatica della complicità.

Il piccolo schiocco è sovrastato dal whooosh di un elicottero al decollo: un crescendo pulsante e potente, che fa vibrare forte aria e terra. Infine Omar se ne va.

Dietro le lenti a specchio blu cobalto, lo sguardo dell’uomo lo segue.

Sente addosso un’inquietudine sottile. Il suo istinto suona l’allarme. Ma ci ripenserà solo più tardi, quando tutte le possibili domande si contrarranno in una sola. Implacabile e ossessiva.

Perché? Perché? Perché non l’ho fermato?

*

L’attacco aereo di due giorni prima ha violentato la terra, i perimetri degli orti e dei cortili, le case in mezzo ai cortili, le vite nei cortili e nelle case.

L’uomo dalle lenti blu cobalto scende dal Lince e chiude la portiera, seguito dal suo traduttore. È abituato da tempo a proteggersi dalle emozioni, dalle insidie che espongono al dolore. Ma non sempre l’abitudine protegge. Non adesso, ad esempio. Non qui.

Il suo sguardo scivola attorno, assorbendo dettagli in ogni dove: architravi di legno spezzate, tetti collassati sopra i letti, sventramenti a disvelare intimità. In fondo, sotto un pergolato d’uva, un vecchio raccoglie con lentezza qualche oggetto sopravvissuto. Lo aiuta una bambina.

È al vecchio che domandano la strada, ma a guidarli sulla strada è la bambina. Il vento che non smette di soffiare porta d’un tratto con sé il belato solitario di una capra.

Allora l’uomo vede il ragazzino.

La sua sagoma si staglia in controluce. Tutt’attorno, il mondo si ritira. L’uomo ascolta un uccello. Cammina.

Le domande gli mordono i pensieri. Esistono forse parole per pronunciare il dolore? Si può aiutare a sopportare il vuoto, a perdonare la morte, a fare pace con la vita?

Non trova risposte. Cammina. Il ragazzino è accovacciato a terra. Carezza la groppa di una capra.

La capra continua a belare.

“Samer?”, fa la voce dell’uomo. Due sillabe sole, un solo nome per attraversare ogni distanza, anche in terra straniera.

La capra continua a belare.

“Samer?”, ripete piano l’uomo, accucciandosi accanto a lui. Il ragazzino sussulta. La sua mano non smette la carezza sul ruvido pelo della capra. Poi sussurra qualche parola. Piano, in punta di voce. Per coglierne il suono sommesso, il traduttore si inginocchia accanto a lui.

“Cos’ha detto?”, chiede l’uomo al traduttore.

“Che la capra ha perso i suoi capretti. E che per questo è molto, molto triste. Da due giorni non smette di belare.”

Non esiste una sillaba – non una- che adesso abbia senso pronunciare. L’unico suono è il vento fra le pietre: sibili acuti, vibrazioni brevi. Una voce che pronuncia ancora il mondo, anche se non è una voce umana. L’uomo ripensa a una poesia studiata a scuola, vite e vite fa.

Ho parlato a una capra. Era sola sul prato, era legata. Sazia d’erba, bagnata dalla pioggia, belava. Quell’uguale belato era fraterno al mio dolore…

Vincendo la propria esitazione, l’uomo allunga una mano.

Lì, sulla groppa che freme, le sue dita incontrano le dita di una mano magra, ragazzina.

Per qualche istante, allora, tutto tace.

E in quel breve intermezzo di pace, anche la capra smette di belare. 

L’autrice: Antonella Sbuelz

Udinese, ha vissuto e studiato anche a Trieste, Verona, Losanna. Scrive narrativa e poesia, con qualche incursione saggistica. Collabora con le pagine culturali del Messaggero Veneto e dei quotidiani Nem e conduce corsi di scrittura creativa con ragazzi e ragazze delle superiori. Insegna in un Liceo Scientifico. Esordisce in poesia nel 1988 con “L’abaco magenta”, in narrativa con la raccolta di racconti “Amori minimi” (1997). Seguono numerosi libri. Tra i più recenti, “Il mio nome è A(n)sia” (2023), “Mariam” (2023) e “Il mondo è triste senza di me! Poesie per giorni dritti e storti” (Feltrinelli, 2024). Tradotta in più lingue, la Storia è la sua fonte di ispirazione.

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