Femminicidi, il coraggio di chi resta. Miriam: «Così continuo la vita di mia madre»
Miriam Saadi è la figlia di Samia Kedim, assassinata a Udine lo scorso aprile. «Se sopravvivi al dolore scopri il lato più forte di te». E sul braccialetto elettronico del padre: «Tanta rabbia, non sapevamo fosse disattivo»

«Non voglio che mio padre vinca. Lui ha scelto la violenza, io scelgo di ricostruire. Lui ha scelto l’odio io ho scelto l’amore». Miriam parla con la voce, con gli occhi, con la pelle. Sprigiona un’energia travolgente, propria solo di chi, chissà come, a 22 anni ha intrapreso la via della rinascita dopo aver attraversato la fine.
Il 17 aprile scorso sua mamma, Samia Bent Rejab Kedim, è stata uccisa da suo padre, nella casa di via Joppi a Udine dove viveva con i figli. Nell’orrore dei femminicidi spesso tendiamo a dimenticarci di chi resta. «Ma non chiamateci vittime: siamo guerrieri che vanno avanti con la loro vita, nonostante tutto».
Miriam, come sta?
«Bene. Mi sto riprendendo cercando di guardare al lato più pratico della mia vita. Quando accadono queste cose il nostro cuore congela il dolore, sto andando da una psicoterapeuta che mi aiuterà pian piano a elaborare il lutto. Ora ho ripreso a lavorare, faccio quello che faceva mia mamma. Per me è un modo di onorarla e vedo anche la la sua forza. è un po' come se entrassi dentro la sua vita. Se la continuassi, diciamo così».
Dove sta trovando il coraggio per ricostruire?
«Dopo quello che è successo conosci la parte di te che è la più forte, quella che è riuscita a sopravvivere. Noi orfani di femminicidio perdiamo tutto, in un secondo. I nostri genitori, la nostra casa, la sicurezza, la fiducia nel mondo. Ci ritroviamo a dover ricostruire tutto da zero. Anche se stessi. Non siamo più figli, figlie. Diventiamo persone nuove. E capiamo di dover ripartire per qualcosa di importantissimo».
Cosa?
«Proseguire le loro vite. Inseguire sogni, ambizioni, costruire un mondo migliore. Ma anche per provare a fa sì che quello che è accaduto alle nostre madri non capiti mai più a nessun’altra donna. Un femminicidio non succede all’improvviso. È anticipato da alcuni segnali, e con quello che abbiamo vissuto noi possiamo aiutare a intercettarli».
Alcune volte, però, le donne vengono uccise nonostante abbiano chiesto aiuto. Suo padre aveva minacciato e picchiato più volte sua madre. Era ai domiciliari con il braccialetto elettronico quando ha fatto quel che ha fatto. Come si può accettare tutto questo?
«Ero molto arrabbiata, non me ne capacitavo. Io e mia mamma pensavamo che il braccialetto elettronico fosse attivo sempre, anche quando lui usciva. Eravamo convinti che non si potesse avvicinare a casa, che in caso avrebbe suonato. Per questo non eravamo troppo preoccupate. Sì, fa arrabbiare, fa arrabbiare…».
Però, come diceva, ormai è successo, bisogna guardare avanti e pensare a chi resta. Trovi che di “voi”se ne parli abbastanza.
«No, spesso passiamo in secondo piano. In molti nemmeno si domandano se ci sono dei figli. Noi, invece, rimaniamo. E bisogna starci vicino, non solo all’inizio. Ci vuole tantissimo tempo per elaborare un dolore simile».
Vi considerate vittime anche voi?
«No, assolutamente, non chiamateci così. Siamo guerrieri. Guerrieri che vanno avanti con la propria vita, nonostante tutto».
A proposito dell’andare avanti con la propria vita: lei è una giovane mamma. Ha una bimba che va all’asilo. Cosa desidera per la piccola?
«Che abbia una vita diversa da quella che ho avuto io. Voglio che diventi una persona consapevole del mondo, che sia in grado di capire e provare empatia. Che impari a prendersi cura degli altri, un qualcosa che a me fa sorridere il cuore».
Cosa le racconterà della nonna?
«Vedremo i moltissimi video in cui sono insieme. Al mare, i giochi in casa, il bagnetto. Avevano un bellissimo legame, per mia figlia la nonna era quasi una seconda mamma».
Parliamo di uomini. Ritiene che ci sia un problema diffuso nel modo in cui si rapportano con le donne?
«Credo che tutto nasca dal diverso modo in cui, fin da piccoli, vengono educati uomini e donne. Ai maschi viene insegnato a schiacciare le emozioni, a costruirsi attorno una corazza. Ma reprimere i sentimenti si tramuta in violenza».
Quando può essere importante insegnare l’educazione all’affettività nelle scuole?
«Farebbe una grande differenza. Aiuterebbe i ragazzi a capire se stessi, i motivi che li spingono a sentire determinate cose a comportarsi in un determinato modo. E la consapevolezza, in fondo, è già guarigione».
Ha parlato dell’importanza del continuare a vivere. Cosa sogna, ora?
«Prima di tutto una vita fatta di pace e tranquillità, essere felice con mia figlia. In futuro sogno diventare un’educatrice. Aiutare gli altri è una cosa che mi vien dal cuore, voglio vivere aiutando altre persone».
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