Più brave e laureate: lo studio è donna. Ma sul lavoro l’uomo resta privilegiato
In Italia le ragazze vanno meglio sia a scuola sia all’università: superiorità che svanisce quando si parla di paghe e di ruoli apicali. La forbice si sta assottigliando, ma non basta


L’Istat certifica che il sorpasso è avvenuto nel 1991. Sono 34 anni che i nostri atenei sfornano più laureate che laureati, come del resto accade in tutta l’Unione europea. Le ragazze, quanto a studi e corso degli onori, sono più brave, determinate e resilienti. A vedere i numeri, rappresentano da tempo l’avanguardia del futuro migliore e, tuttavia, il loro talento si scontra con un’evidente anomalia.
Nell’Italia che gravita all’87esima posizione nella classifica mondiale del gender-gap - dietro alla Mongolia, alla Sierra Leone e alla Repubblica Domenicana – le donne sono ancorate a un tasso di occupazione significativamente inferiore rispetto agli uomini (52,5% contro il 70,4%, fonte Inps) e sono più spesso impiegate con contratti precari, oppure a tempo parziale involontario, il che comporta salari più contenuti. Non è bene e c’è di peggio: la differenza di reddito fra i sessi è più ampia se la lavoratrice ha il sudato “pezzo di carta”.
Dalle statistiche europee emerge che il Girl-Power universitario è una realtà continentale. Ma anche che il nostro Paese avrebbe bisogno di una rivoluzione culturale che rilanci l’istruzione, visto che è penultimo nell’Unione quanto a numero di laureati (peggio fa solo la Romania).
L’era della tecnologia e i nuovi mestieri richiedono competenze specifiche e approfondite. L’alternativa sono gli incarichi meno qualificati e poco pagati, la precarietà più probabile e lo sfruttamento contrattuale, trampolini per il disagio. Gli ultimi dati dimostrano la tenuta del mercato del lavoro, pur in un contesto economico e geopolitico tanto fragile quanto incerto; al contempo, segnalano la crescita degli indipendenti e del settore dei servizi, comparto ricco di entrate e prospettive per chi li gestisce più che per chi offre il proprio tempo in cambio di un salario.
Il quadro non è rassicurante. In Italia, nella fascia di età compresa fra i 25 e 34 anni, i laureati sono appena il 31 per cento contro 43 della media europea (fonte Eurostat). I maschi sono il 24 per cento del campione nazionale (38 per cento l’Ue) e la quota femminile è superiore dell’11 per cento rispetto a quella maschile, in linea con il resto del continente (35).
Il Rendiconto di genere 2024 dell’Inps evidenzia che le donne hanno superato gli uomini tra i diplomati (52,6% del totale) e i laureati (59,9%). I ragazzi sono sottorappresentati da molti anni un po’ ovunque. Solo la Germania si mantiene in (quasi) equilibrio, con 104 laureate ogni 100 laureati.
Marianna Filandri, sociologa dell’Università di Torino, rivela che già nelle medie superiori le donne studiano di più e ottengono risultati migliori. Risulta che al liceo il 41 per cento delle studentesse passino sui libri almeno 15 ore alla settimana, cosa che fa appena il 20,7 per cento dei maschi: più del doppio.
Finito il ciclo intorno al raggiungimento della maggiore età, il 40 per cento delle ragazze prende almeno 90/100, esito che riesce al 25 per cento dei ragazzi. Non c’è dubbio. Sono più dotate, ma in Italia diventano un patrimonio non valorizzato a sufficienza da una società non abbastanza aperta che non sempre offre il sostegno adeguato a chi decide di farsi una famiglia (a partire dai servizi).
Ne deriva, argomenta Filandri, che le donne hanno minore probabilità di trovare lavoro, meno chance di “fare carriera” (e più lentamente), percepiscono retribuzioni più basse e se la vedono con una più alta possibilità di uscire dal mercato del lavoro.
L’ultima nota di settore dell’Istat (relativa al 2022) afferma che, fra i dipendenti, le lavoratrici percepiscono il 5,6% in meno rispetto ai colleghi. L’inconveniente è che il divario ha la tendenza a crescere tra chi ha ottenuto la laurea, segmento in cui gli uomini vantano una retribuzione media oraria superiore del 16 per cento.
Per semplificare, a parità di incarico e azienda, a un “lui” che guadagna 40 mila euro l’anno corrisponde una “lei” che ne percepisce 33.600. Se sei una ragazza, studiare rende meno. L’asimmetria è palese e dolorosa, per come influenza le vite delle persone e quella delle imprese.
Uno studio di Goldman Sachs ha stimato che, se si colmasse il divario di genere, il Pil italiano potrebbe aumentare sino al 22% grazie a un incremento di produttività e all’aumento delle ore lavorate. Bankitalia ha calcolato che se le donne occupate superassero il 60 per cento della forza lavoro disponibile, l’effetto sulla crescita sarebbe un incremento base del sette per cento.
Certo, è una questione complessa che mescola radici economiche e culturali, influenza le scelte personali e dovrebbe obbligare tutti a interrogarsi sui mali storici della società e sulle possibili soluzioni, ragionando ad ampio spettro su famiglia, scuola e mondo del lavoro.
Si sono fatti dei passi in avanti visibili, l’abbandono post maternità sta calando, mentre netta è l’ascesa femminile nei ruoli dirigenziali. Nondimeno, le diseguaglianze restano con i loro falsi ordini gerarchici, in particolare nel settore privato, dove il divario retributivo è del 15 percento contro il 5,2 per cento che si riscontra nel pubblico. I governi, sinora, sono appena riusciti appena a correggere la rotta.
L’Italia, relegata al fondo delle classifiche europee dell’istruzione e del lavoro, attende che parlamento e datori di lavoro si liberino da incrostazioni antiche, si facciano ammaliare dal merito come dal pensiero largo. E, poi, agiscano di conseguenza, con la testa e il portafoglio.
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