La testimonianza: «Vent’anni per la diagnosi di endometriosi. L’intervento? La mia seconda nascita»

Cristina Tronchin soffriva di dolori mestruali fortissimi sin da adolescente. L’hanno apostrofata come malata immaginaria. Ha raccontato il suo calvario sui social, fino alla sala operatoria: «Alle donne dico di non aspettare: non abbiano paura del dolore e del percorso clinico. Poi la vita cambia, in meglio»

Rubina Bon
Cristina Tronchin nel selfie pubblicato sui social subito dopo l'operazione di asportazione di utero e tube
Cristina Tronchin nel selfie pubblicato sui social subito dopo l'operazione di asportazione di utero e tube

Per anni l’hanno apostrofata come “malata immaginaria”. E lei per anni ha mandato giù rospi e lottato con i dolori che, nei momenti peggiori, le concedevano solo cinque giorni di respiro tra un ciclo mestruale e l’altro.

E’ cresciuta imbottita di antidolorifici e antinfiammatori, è scesa in campo con le Red Panthers del rugby trevigiano facendo fatica anche solo a camminare, figurarsi a placcare. 

Anni così, di pellegrinaggio tra una visita ginecologica e un accesso al Pronto soccorso quando il male andava oltre ogni sopportazione, tra speranza (poca) e molta fatica. Fino alla prima vittoria, quando finalmente un medico ha dato un nome alla patologia, e poi alla rinascita definitiva il giorno dell’operazione chirurgica.

Cristina Tronchin, trevigiana di 40 anni, giornalista, ha fatto della sua lunghissima convivenza con l’endometriosi una battaglia di vita. Ne ha parlato sui social, si è raccontata, messa a nudo. Perché le donne che vivono i suoi stessi dolori non debbano più essere additate come “malate immaginarie”.

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La redazione
Alessandra Andrisani, direttrice dell’Unità di Procreazione medica assistita dell’Azienda Ospedale Università di Padova

Cristina, partiamo dall’inizio della sua storia...

«Ho avuto il menarca a 13 anni e mezzo e il ciclo mestruale per me è stato sempre doloroso. In famiglia avevo una storia di dolori mestruali. Mia nonna era infermiera e, quando stava male per il ciclo, il suo primario le consigliava di bere un po’ di vino bianco. Anche mia mamma ha avuto problemi con il ciclo e dopo due gravidanze è stata operata d’urgenza all’utero.

Ma sulle sue carte dell’ospedale non compare mai la parola endometriosi. A 18 anni ho iniziato a cercare una soluzione ai miei dolori, nel frattempo ho continuato a giocare a rugby ma era durissima. Nel 2012 è arrivata una gravidanza naturale. Un miracolo, mi avrebbero detto i medici tempo dopo. Ma anche dopo il parto, i dolori sono proseguiti. In un mese, ero arrivata a stare bene per cinque giorni appena».

Come è arrivata alla diagnosi?

«C’è stato un periodo in cui soffrivo per dolori assurdi quando avevo il ciclo, tanto che alcune volte sono rimasta anche a letto, impossibilitata ad alzarmi. Nel 2017, in un mese e mezzo ho fatto dieci accessi al Pronto soccorso di Treviso. Solo alla fine mi è stata prescritta una risonanza magnetica con contrasto che ha sancito la diagnosi di endometriosi. Avevo 33 anni».

Con la diagnosi in mano è stato tutto più semplice?

«A quell’età era stato escluso l’intervento radicale di asportazione dell’utero, sebbene io dicessi già che non ne potevo più. Ho quindi contattato l’ospedale di Negrar, specializzato in endometriosi con i medici Roberto Clarizia e Daniele Mautone, e sono stata messa in lista d’attesa per l’intervento più soft di eradicazione dell'endometriosi e termoablazione dell'adenomiosi, che ho fatto a gennaio 2018.

Per sei mesi sono stata bene, poi ancora dolori. Finché ad aprile 2021, avevo 37 anni, ho dato il consenso all’isterectomia, ossia all’asportazione, dell’utero e delle tube, perché volevo stare finalmente bene. Il 1° giugno 2022 sono stata operata a Negrar». 

Come è stata la vita dopo l’intervento?

«Quel giorno sono rinata. Sto meglio decisamente, anche se ci sono varie controindicazioni: sono ingrassata e ho qualche sintomo simile alla menopausa. Ma sono stata fortunata perché l’endometriosi nel mio caso non si è espansa. Conosco ragazze a cui è arrivata fin sulle gengive o nel naso, sul diaframma o sull’intestino, con altri gravissimi problemi da affrontare».

Quali sono stati i sintomi della malattia?

«Dolori fortissimi che prendevano la parte bassa del ventre e si estendevano a gambe e zona lombare. Per cui a volte sentivo le gambe che cedevano. Dai 14 ai 27 anni ho giocato a rugby, dovevo imbottirmi di antidolorifici e antinfiammatori: finché non mi riscaldavo, non riuscivo nemmeno a correre». 

Perché secondo lei la diagnosi di endometriosi è stata così tardiva?

«I primi sintomi li ho manifestati negli anni Novanta, quando la malattia non era ancora molto conosciuta. Con il tempo la situazione è migliorata anche grazie a donne famose che hanno reso pubbliche le loro esperienze con l’endometriosi. Per questo nel mio piccolo ho raccontato la mia storia sui social. Gira ancora il mio primo post del 2018, c’è gente che mi scrive per sé o per i suoi familiari».

Quando un medico finalmente ha dato un nome alla sua malattia dopo anni di dolori, cosa ha provato?

«Quando ho ritirato la risonanza magnetica e ho letto l'esito di endometriosi, ero ancora in ospedale. Mi sono seduta e ho pianto perché ho pensato che io avevo immaginato la diagnosi, ma i medici ci avevano messo tutti quegli anni.

Da una parte avevo un po' di rabbia, dall'altra però mi sentivo sollevata perché finalmente avevo dato un nome a quel dolore, a dispetto di quelle persone che per anni avevano detto che mi inventavo tutto e ci marciavo sopra».

Oltre al dolore fisico sopportato per anni, c’è qualcosa altro che l’ha ferita?

«Quando stavo male, capitava che venissi schernita da chi non conosceva la malattia e non capiva quello che sentivo. E’ successo che alcune persone, ad anni di distanza, mi dicessero che si erano dovute ricredere perché al tempo non mi ero inventata nulla.

E poi ho sofferto per la tanta frustrazione, perché basterebbe una ecografia fatta da un ginecologo esperto o una risonanza magnetica per arrivare alla diagnosi. Invece ho dovuto fare tantissimi accertamenti e visite prima di arrivare agli esami decisivi e poi all’intervento».

C'è ancora uno stigma rispetto al dolore ginecologico?

«Credo sia una una questione di cultura, di stereotipi che ancora sono duri a morire. Permane l’idea che la donna debba sempre un po’ sacrificarsi, invece questo è un problema medico reale. Non è normale avere dolori forti ad ogni ciclo».

Quali sono le richieste allo Stato da parte delle donne con endometriosi?

«L’endometriosi è una patologia invalidante, però è possibile beneficiare dei permessi della legge 104 dal terzo stadio della malattia, sempre che l’Inps la riconosca. Fa parte dei Lea (Livelli essenziali di assistenza, ndr), sono previste delle esenzioni ma in realtà sono coperte pochissime spese.

Per fare in fretta e andare nei centri giusti, bisogna fare quasi tutto a pagamento. Invece sarebbe giusto che venisse riconosciuta l'esenzione totale in tutti gli stadi della malattia e che fosse previsto il rimborso delle spese sostenute per prestazioni in regime privato. E poi ci sono pochi centri, servirebbe più personale specializzato. Per ottenere questo, penso ad un aumento dell’offerta universitaria in questo campo».

Cosa consiglia alle donne che avvertono i primi sintomi della malattia?

«A Nord Est abbiamo la fortuna di avere centri di eccellenza per l’endometriosi, penso a Negrar, Peschiera del Garda, Abano Terme. Alle donne dico di non fermarsi anche se il percorso di diagnosi comporta sacrifici economici, logistici e di tempo. E di non accontentarsi di un primo parere, ma di andare a fondo.

Ora c’è molta più sensibilità sul tema, le donne con l’endometriosi non sono più sole. Non bisogna aspettare troppo tempo se si hanno cicli molto dolorosi o non si riesce ad avere una gravidanza. Ma soprattutto dico alle donne di non aver paura di affrontare questo dolore e anche il percorso clinico. Perché poi la vita cambia, in meglio».

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