A 45 anni dalla strage di Bologna la forza della verità ci aiuta a capire che italiani siamo

Il 2 agosto 1980 85 morti e oltre 200 feriti nell’esplosione di una bombola nella sala d’aspetto dei passeggeri. Un mese fa la Cassazione ha accertato la colpevolezza dell’ultimo terrorista. Il lavoro di magistrati e storici è fondamentale per la credibilità dello Stato

Valentine Lomellini*
Un'immagine della strage di Bologna
Un'immagine della strage di Bologna

Sono le 10.24 del 2 agosto 1980. Alla Stazione centrale di Bologna si trova mezza Italia, intenta nel transito tra il Nord e il Sud per le vacanze estive in un Paese in cui ancora il treno costituisce un mezzo di trasporto primario. La lancetta lunga dell’orologio in bianco e nero che sporge dal muro a sinistra dell’ingresso principale scatta sul 5. Sono le ore dieci e venticinque minuti. E il mondo crolla.

Una bomba esplode nella sala d’aspetto dei passeggeri della seconda classe, probabilmente posizionata su un piccolo tavolino all’ingresso. È una strage: circa 20 chili di esplosivo lasciano a terra 85 morti e oltre duecento feriti.

Sono trascorsi 45 anni da quella strage. Un anniversario che assume un’importanza particolare, e non solo per il numero tondo. Il primo luglio 2025, un mese fa, è stato infatti reso noto l’esito della sentenza di Cassazione del processo a Paolo Bellini, l’ultimo dei condannati per la strage.

Dopo le condanne di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini, Bellini è ritenuto colpevole di aver trasportato l’ordigno che provocò l’eccidio.

Come hanno sottolineato Alessia Merluzzi e Andrea Speranzoni, avvocati di parte civile, «i Nar di Cavallini e Fioravanti e Terza posizione con Luigi Ciavardini altro non erano che gli operativi legati al nuovo assetto organizzativo che le vecchie sigle stragiste di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale si erano date. Erano gruppi di fuoco terroristici, legati da un lato a quelle vecchie sigle stragiste, e dall’altro alla P2 di Licio Gelli e agli apparati di sicurezza dello Stato, che hanno finanziato, organizzato la strage alla stazione di Bologna e depistato le indagini sulla stessa».

La sentenza, dunque, individua in via definitiva i mandanti dell’attacco nella P2 di Licio Gelli e mette in luce le entrature nei servizi segreti che hanno consentito una lunga stagione di depistaggi.

Già a pochi giorni dalla strage, infatti, emersero le presunte piste libanese e palestinese, costruite a tavolino per sviare i sospetti rispetto agli effettivi esecutori e alle menti che avevano pianificato l’attentato. La prima pista decadde quasi subito. La seconda venne ripresa più e più volte, anche da rappresentanti istituzionali e persino in tempi recenti.

Tornata in auge a metà anni 2000, dopo le dichiarazioni di Francesco Cossiga, presidente emerito della Repubblica, la pista palestinese pretendeva di individuare le ragioni della strage di Bologna nella presunta violazione di un accordo (che Cossiga definì “lodo Moro”, dal nome del leader democristiano ucciso dalle Brigate rosse): un patto che legò lo Stato italiano e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina e che prevedeva la garanzia dell’inviolabilità del territorio italiano da attentati terroristici internazionali in cambio di un trattamento privilegiato degli estremisti palestinesi in transito nel nostro Paese.

La violazione del «lodo» sarebbe stata dovuta all’arresto, nel novembre 1979, di Abu Anzeh Saleh, esponente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina; la strage del 2 agosto sarebbe stata quindi la rappresaglia per la violazione dell’accordo. Per quanto l’esistenza del lodo possa essere scientificamente provata (e lo è stata), la pista palestinese è stata già smentita in sede giudiziaria e, auspicabilmente, a breve lo sarà anche sul piano della ricerca storiografica.

Oltre ai depistaggi, va però sottolineato un altro aspetto. Per sommergere il dolore delle vittime e allontanare l’opinione pubblica dalla verità, è stata utilizzata anche l’arma del silenzio. La memoria intorno ad un attacco terroristico è infatti difficile da costruire. Un attentato di questa portata irrompe nella vita delle vittime stravolgendola con un effetto tornado ma, allontanandosi dal baricentro dei fatti, lascia intatto lo scorrere delle cose. È quindi proprio l’arma del silenzio la più efficace per far sprofondare nell’oblio le responsabilità della strage.

Ecco perché, come ha ricordato Ilaria Moroni, Direttrice del Centro documentazione Archivio Flamigni, il lavoro delle associazioni dei familiari delle vittime, in particolare quella di Bologna, e la consultabilità della documentazione giudiziaria sono stati così importanti: «Il lavoro della magistratura è stato fondamentale così come quello degli storici degli ultimi vent’anni, possibile grazie alla disponibilità delle fonti ed anche ai buchi che è stato possibile individuare nella documentazione».

Perché anche questi «buchi» parlano e in questo la ricerca scientifica svolge un ruolo essenziale: non solo consente di combattere il silenzio ma permette di sgombrare il campo dalle falsificazioni stratificate che si sono fatte verità nella mente dei più. Per contrastare la disinformazione, Moroni, insieme a Benedetta Tobagi e Paolo Mattera dell’Università di Roma 3 hanno messo in campo un percorso formativo diretto a studenti ed insegnanti. La verità si può spiegare in modo chiaro e comprensibile grazie al lavoro degli storici e ci consente oggi di dire, finalmente: «Noi sappiamo e abbiamo le prove».

Questo non riporta in vita chi ci ha lasciato quarantacinque anni fa. Ma ci fa capire quanto importante sia conoscere la verità. Quanta differenza c’è nell’essere cittadina o cittadino di uno Stato che ti nasconde e ti nega di conoscere le responsabilità della morte di un tuo caro, o vivere in un Paese che si prende carico di quanto accaduto e ti consente di sapere, per pacificarti con il passato.

Per venire a capo della verità serve uno sforzo collettivo. La magistratura ha svolto un ruolo importante in questo e la possibilità di consultare le fonti giudiziarie è stata e resta fondamentale. Così come il ruolo svolto dalla società civile. Partecipare è il solo modo per lacerare il silenzio.

Quel silenzio che assume caratteri intenzionali ed omertosi deve continuare ad essere rotto. Per fare chiarezza, per sapere chi eravamo ieri. E chi siamo oggi

*Valentine Lomellini è docente all’Università di Padova, dove dirige il Centre for Security Studies, e Affiliate alla Georgetown University di Washington DC.

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