In piazza per difendere la vera anima dell’Europa
Sabato il raduno che supera la logica del riarmo e del contrasto e invece abbraccia i valori di pace, complessità, polifonia culturale

Sabato si scenderà in piazza per rispondere a un appello nato da un cittadino, un giornalista, e subito accolto da altri cittadini, lettori, e poi da altri e altri ancora.
La natura della manifestazione rende quasi superfluo discuterne l’utilità: è salutare in un momento drammatico per l’Europa e il mondo che la società civile si ritrovi, che i cittadini ricordino di essere una comunità e quindi una civiltà, di diritti e impegni e ideali.
È importante per l’Italia constatare che esiste una cittadinanza informata e partecipe, che si ritrova e non può essere ignorata.
Ritroviamoci dunque in piazza. Ma per quale Europa? La caduta del Muro di Berlino ha portato a un radicale cambiamento dell’idea di Europa come entità tra due blocchi, sistemi economici e politici opposti e in guerra.
L’Europa occidentale che per decenni, quando pensava in termini di minaccia, pensava all’Urss, ha visto quella costellazione dissolversi di colpo in una miriade di Stati che hanno iniziato a sognare democrazia, sviluppo economico, libera sovranità nazionale. Quel sogno ha preso forme differenti, ha realizzato in parte alcune speranze, altre le ha tradite (come dimostrano i recenti risultati elettorali nella parte Est della Germania), altre le ha pervertite.
Negli ultimi anni l’Europa si è più volte interrogata sulla necessità e sull’opportunità dell’allargamento dei propri confini a Est e sul rischio che avrebbe comportato per la propria identità, e al contempo è stata circondata dalle richieste di Paesi che desiderano aderire all’Unione.
Da ultimo poi il fattore insicurezza è tornato a bussare dalle porte orientali. Per provare a rispondere alla domanda cos’è l’Europa vorrei allora provare a guardarla con gli occhi di una generazione nata europea e vedere cosa ha significato per loro, per noi: poter studiare all’estero indipendentemente dalle possibilità economiche di partenza grazie ai molti progetti europei di sostegno e integrazione; poter attraversare liberamente i confini, conoscere culture, imparare lingue, far circolare saperi e informazioni, costruire relazioni e famiglie al di fuori del proprio mondo d’origine; poter scegliere dove lavorare, godendo dei vantaggi di una rete monetaria e politica e sanitaria comune.
Soprattutto, la possibilità di essere cittadini di un mondo più vasto che aveva al proprio centro i valori della pace, della diversità, dell’accoglienza, della difesa dei diritti.
Quell’Europa è ancora possibile? Qualcuno pensa di no. Il primo modo per ucciderla, credo, è costringerla a perdere quella polifonia e capacità di tenere insieme le diversità che è la sua primaria caratteristica.
Quella che la distingue dal binarismo di pensiero dei grandi imperi a Ovest e a Est. L’Europa di questi giorni pare stretta nella morsa di opposizioni che non le appartengono sovranità/ingerenza, pace/guerra, noi/altri.
Guardarla dal nostro confine può essere allora utile per smarcarci da questa dualità. È evidente che affinché l’Europa possa essere una voce forte, non ancella al mondo atlantico né suddita di un nuovo imperialismo orientale, non deve chiudersi in confini ristretti, ma allargare il proprio ombrello.
Di qui la questione cruciale dell’Est, e dei molti Paesi di quell’area che sono arrivati tardi e malamente alla propria sovranità nazionale e quindi faranno più fatica a cederla in nome di ordinamenti sovranazionali.
Per questo è necessario procedere per gradi e differenze, magari togliendo la paralizzante approvazione all’unanimità di ogni azione, ma tenendo ferme due questioni che devono far parlare l’Europa con una sola voce: i diritti umani e l’emergenza ambientale.
C’è a fondamento dell’Europa un diritto-dovere all’ingerenza per difendere i diritti umani o la salvaguardia della biosfera ma, e qui sta il punto, si tratta di ingerenza da parte di organismi internazionali e organizzazioni non governative, non di Stati sovrani nella vita di altri Stati sovrani.
Siamo in tempi di guerra, dove si scontrano posizione bellicose e neutraliste. Ma in quel confine a Est ci ricordiamo dell’ultima guerra europea del Novecento, quella balcanica, che forse può tornare utile per trarne qualche monito. Ci ricordiamo che alla fine del primo tempo di quella guerra, nel giugno 1995, un gruppo di parlamentari europei firmò un appello che diceva L’Europa nasce o muore a Sarajevo.
Quell’appello, firmato da molti tra i volti migliori del pacifismo internazionale, era un invito a non restare neutrali, perché nelle guerre ci sono aggrediti e aggressori, vittime e criminali, e i primi chiedevano disperatamente di essere aiutati.
Ora, passati trent’anni, sappiamo che l’Europa morì a Sarajevo. O più precisamente, morì qualche giorno dopo quell’appello, a Srebrenica. Nella città “zona protetta” dall’Onu dove si rifugiarono in molti. Dove in molti scapparono credendo nella parola data dalla Nazioni Unite per proteggerli. Srebrenica dove venne compiuto il più sistematico genocidio della fine del Novecento europeo grazie al contributo delle forze Onu che si girarono dall’altra parte. L’Europa si girò dall’altra parte e a Srebrenica morì.
Cosa ci insegna allora la guerra balcanica? Che la questione non è tanto quella di armarci in tutta fretta come vorrebbero alcuni politici: l’idea di tornare guerrieri terrorizza e ripugna una generazione nata europea. La stessa però che sente il dovere di organizzarsi in un’unione forte perché in tutti i campi – tecnologico, militare, culturale – non sia la legge del più forte a governare.
Di qui allora l’appello a che l’Europa si opponga alla guerra, si schieri sempre al fianco degli aggrediti, attraverso varie e simultanea azioni alcune già caldeggiate da quel grande europeista di confine che fu Alexander Langer: la fiducia negli organi internazionali volti a ristabilire il valore del diritto; l’idea che debba esistere una forza militare europea che permetta interventi precisi e commisurati; ma anche il rafforzamento e la tutela della libera informazione verificata; la promozione e il sostegno a tutti i tavoli i sodalizi inter-etnici, inter-religiosi, inter-culturali: buoni alleati della diplomazia per la pace; lo sviluppo di una politica più europea e meno atlantista.
Ma soprattutto un’Europa che sia in grado di pensare questi aspetti insieme, di tenerli uniti respingendo la logica dei “noi/altri”, che sottende quella un po’ menefreghista dell’ognuno per sé, con le proprie alleanze e i propri piccoli vantaggi. Non è più tempo per il pensiero binario o per perderci nella propaganda degli estremi.
Generazioni intere vedono un futuro costellato da guerre alle porte, dall’emergenza ambientale, dalle migrazioni che il clima e i conflitti determineranno, da una tecnologia capitalistica senza regole.
Queste generazioni sanno che la soluzione non sta nella corsa agli armamenti e nemmeno in una neutralità inefficace, non sta nella retorica di un’identità monolitica (una nazione, una lingua, un sangue) e nemmeno del globalismo spinto del capitalismo senza regole.
Sanno che l’Europa è l’unica salvezza che hanno, perché per sua essenza e fondazione è polifonia, complessità, contraddizione e tempo storico di lunga durata. È per una politica all’altezza di questa Europa che scendiamo in piazza.
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