Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 6 marzo
Bong Joon-ho porta su un altro pianeta le diseguaglianze sociali, già marchio del suo cinema, con “Mickey 17”. Dopo il trionfo agli Oscar, esce di nuovo in sala “Anora”. Pupi Avanti torna al gotico con “L’orto americano”

Nel prossimo futuro, saremo carne sacrificabile da riciclare agli ordini di tecno-dittatori stupidi e ingordi: dopo il successo di “Parasite”, il regista sudcoreano Bong Joon-ho esaspera il tema della disuguaglianza sociale con un “doppio” Robert Pattinson, protagonista di “Mickey 17”.
Pupi Avati con “L’orto americano” (film di chiusura all’ultima Mostra del Cinema di Venezia) mescola horror e amarcord giovanile: ma è più fumo che arrosto.
La prima uscita in sala era stata deludente. Ma adesso “Anora” di Sean Baker, forte di 5 pesantissimi Oscar, punta a rifarsi anche al botteghino con il tragicomico e scatenato incontro tra il figlio di un oligarca russo e una spogliarellista.
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Mickey 17
Regia: Bong Joon-ho
Cast: Robert Pattinson, Mark Ruffalo, Naomi Ackie, Toni Colette
Durata: 139’

Se in “Snowpiercer” e in “Parasite” Bong Joon-ho mostrava le disuguaglianze sociali, rispettivamente, in senso orizzontale e verticale, il suo nuovo “Mickey 17” ragiona in “verticalissimo”, finendo persino su un altro pianeta. Che si chiama Niflheim: è freddo e inospitale ma Kenneth Marshall - un politico, tanto megalomane quanto stupido (manovrato da una moglie mefistofelica) - ha deciso di colonizzarlo per fondare un nuovo mondo popolato da una razza umana purissima.
Allo scopo si serve di una particolare categoria di lavoratori (banditi sulla Terra) che possono essere rigenerati all’infinito. Quando muoiono, infatti, il loro corpo viene letteralmente ristampato in 3D e i loro ricordi trasferiti dal vecchio al riciclato involucro. All’infinito.
Mickey Barnes (Robert Pattinson), in fuga da un ferocissimo strozzino, decide così di partire per Niflheim e diventare un “sacrificabile”. E muore, e muore e muore... per 16 volte.
Peccato che il Mickey n. 17, dato per divorato da una razza aliena (una sorta di talpa-mammuth tentacolare), riesca a tornare alla base dove, nel frattempo, lo hanno già replicato per la 18esima volta. Ma i multipli non possono coesistere e devono essere terminati per sempre.
Bong Joon-ho “raddoppia” la posta e, all’interno della cornice fantascientifica, porta all’esasperazione una riflessione, per lui non inedita, su una società sempre più allo sbando, un genere umano schiavizzato da tecno-dittatori dalla mascella cotonata che promettono l’Eden ma vogliono solo riempirsi la pancia (e il tema del cibo e delle risorse esauribili ritorna con insistenza dopo le barrette a base di scarafaggi di “Parasite”).
Il tutto in chiave, ovviamente, iper-grottesca e, spesso, ironica ma con quel fondo di attualità (ogni riferimento a Elon Musk e ai suoi accoliti non è puramente casuale) che fa di “Mickey 17” un film anche politico. Ma in questa vertiginosa escalation (dal treno alla società sudcoreana all’umanità intera) Bong perde più volte il bandolo della matassa, in un gioco fin troppo squilibrato, amplificato anche dalla recitazione esasperata di tutti gli attori, a cominciare dal doppio Pattinson (un po’ idiota e un po’ cinico) per finire con un Ruffalo molto mussoliniano.
L’acrobazia tra registri e temi (disparità sociale ma anche dominazioni arbitrarie che confondono gli aggrediti con gli aggressori, l’uso distorto delle tecnologie, l’individualità smarrita e riciclata per le cause più spregevoli e futili) non giova a un film che ha, certamente, più di qualche momento attraente (a cominciare dal processo di stampa umana) e anche divertente (con qualche vibrazione persino sensuale), ma che, più spesso, si impantana in divagazioni pleonastiche (la cena, lo spettacolo, la traduzione del linguaggio extraterrestre) che trasformano “Mickey 17” in uno strano oggetto di modernariato. (Marco Contino)
Voto: 6
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L’orto americano
Regia: Pupi Avati
Cast: Filippo Scotti, Roberto De Francesco, Armando De Ceccon, Chiara Caselli, Rita Tushingham.
Durata: 107’

Presentato fuori concorso come film di chiusura all’ultima edizione della Mostra di Venezia, “L’orto americano” è un racconto gotico di Pupi Avati che segna il ritorno ad atmosfere e luoghi come il thriller a tinte horror che il regista bolognese ha sempre frequentato, sin dai tempi de “Le case dalle finestre che ridono”.
Avati porta indietro il tempo della narrazione, a Bologna, ai tempi della Liberazione, quando un giovane problematico con aspirazioni letterarie si innamora al primo sguardo di una bellissima nurse dell’esercito americano, senza mai aver il coraggio di incontrarla e di parlarle. L’anno dopo, nel Mid West americano, il protagonista andrà ad abitare in una casa contigua a quella della sua amata, separata solo da un nefasto orto.
Lì vive l’anziana madre, disperata dalla scomparsa della figlia che non ha dato più notizie di sé dalla conclusione del conflitto. Una notte, il ragazzo, richiamato da una voce, si porta nel giardino vicino, dove trova un vaso pieno di un liquido opaco con un'etichetta che fa riferimento ai genitali femminili. È l'inizio di una ricerca che lo porterà ad Argenta, in provincia di Ferrara, sulle tracce della nurse e del serial killer che uccide le donne per asportarne e conservarne in formaldeide l'apparato genitale.
Interessante nella ricostruzione storica e nell’ambientazione d’epoca, resa più nostalgica da un intenso bianco e nero, Avati unisce e mescola le diverse tematiche del suo cinema, ovvero l’horror, qui in versione “psycho”, e l’amarcord giovanile ed emiliano incarnato da un personaggio che non invecchia a dispetto degli altri.
Come in tutte le trame dei thriller di scuola classica, anche “L’orto americano” dissemina indizi inquietanti e false piste che distolgono un po’ lo spettatore da una soluzione semplice e lineare, creando una sorta di fumo narrativo misterioso. Ma al di là di qualche difficoltà narrativa, resta un film che porta alla luce i sentimenti più amati da Avati, la fiducia e l’attesa in qualcosa che avvenga a breve o a lungo termine, incarnata dall’ansia della ricerca per un amore impossibile, frutto di pura fantasia, nella quale il ragazzo non demorde, sino all’ultimo (Michele Gottardi)
Voto: 6
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Anora
Regia: Sean Baker
Cast: Mikey Madison, Mark Eydelshteyn, Yuriy Borisov, Karren Karagulian
Durata: 94’

Dopo il successo della notte degli Oscar di lunedì 3 marzo, ritorna anche nelle nostre sale “Anora”, uscito nei cinema lo scorso novembre senza teniture troppo prolungate che facessero presagire il successo di Los Angeles.
Sean Baker è un regista indipendente - il precedente lungometraggio, “Tangerine” l’ha girato con l’IPhone -che è approdato all’Universal, ma che mantiene totalmente i requisiti del cinema indie, imprevedibilità, temi morali svillaneggiati e destrutturati, come i generi cinematografici dai quali attinge a pieni mane, anche in questo film, un mix divertente e agrodolce tra “Pretty woman” e i bravi ragazzi di Martin Scorsese.
“Anora” (Mikey Madison, una delle ragazze di Manson in “C’era una volta a... Hollywood”) è una spogliarellista che arrotonda offrendo sesso a pagamento, anche all’arrapatissimo Vanya, ragazzo russo pieno di soldi perché figlio di un oligarca, un po’ efebico e un po’ molto nerd, 21 anni contro i 23 di lei che pare ne abbia almeno dieci di più, quanto a esperienza sessuale e ingegno. Al punto da pensare di poter incastraci qualcosa di grosso, economicamente parlando. Così i due finiscono a Las Vegas, e tra un sesso e l’altro scoppia l’amore e si sposano.
Ma i genitori oligarchi non sembrano esserne troppo felici, al punto da mandare una squadra di pronto intervento con un improbabile pope a capo per recuperare il figlio prediletto e salvarlo dal peccato. E siccome il diavolo non veste solo Prada, di cose ne succedono in un’escalation di divertissement, di inseguimenti, violenze non proprio da ridere e un linguaggio altrettanto trash.
Ma a sorreggere ed apprezzare il film stanno una scrittura ricca e imprevedibile e una recitazione perfetta di ogni singolo protagonista o spalla. Si ride, invece, eccome, per un buon due terzi del film, a riprova che anche i film divertenti possono avere il loro valore e magari vincere un festival, come è capitato ad “Anora” che ha vinto la Palma d’oro a Cannes 2024.
Il genere commedia brillante si evolve in modo ulteriormente sofisticato e dark spostandosi da Las Vegas e New York e virando nel sentimentale, dove però l’happy end non è così dietro l’angolo, affatto scontato. Il finale, infatti, conferma come i sogni spesso muoiano all’alba, ma soprattutto che la dinamica tra buoni e cattivi non esiste solo nella commedia ed è difficile da scardinare (Michele Gottardi).
Voto: 7
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