Il fisico Faggin, l’uomo che vide il futuro

Il documentario del regista Marcello Foa racconta la storia del veneto di cui Bill Gates disse: «Senza di lui la Silicon Valley sarabbe soltato una valle»

Elena Grassi
Federico Faggin e Marcello Foa, a destra
Federico Faggin e Marcello Foa, a destra

 

«Senza di lui la Silicon Valley sarebbe soltanto una valle». Così disse Bill Gates del fisico vicentino Federico Faggin, che inventò il primo microprocessore ma anche il sistema touchscreen, che oggi consente a tutti di utilizzare gli smartphone. La sua vita è raccontata da un regista d’eccezione, Marcello Foa, nel documentario “Federico Faggin. L'uomo che vide il futuro", prodotto da Zetagroup con Rai Documentari e RSI Tv Svizzera.

Dopo il passaggio su Rai3 e la diffusione su Raiplay, il film sarà proiettato lunedì 23 giugno alle 20.45 al cinema Edera di Treviso e introdotto al pubblico da Foa, in tour nel Nordest anche per presentare il suo ultimo libro La società del ricatto. E come difendersi (Guerini e Associati, 2025) il 23 alle 16.30 in piazza Cima a Conegliano per il festival “Cultura liberata” e martedì 24 alle 20 in Sala Abaco a Codroipo.

Foa, cominciando dal documentario, com’è nata l’idea di raccontare Federico Faggin?

«Ho seguito una conferenza di Faggin a Torino e ne sono rimasto affascinato, l’ho invitato poi a “Giù la maschera” il programma che conduco su Rai Radio 1, scoprendo un uomo incredibile, un personaggio davvero fuori dal comune. Parlando poi con Fabrizio Zappi, direttore di Rai Documentari, abbiamo visto che di prodotti su Faggin non ce n’erano e l’ho vissuta come una missione. Ho sentito molto il desiderio di far conoscere la sua storia umana e il suo messaggio spirituale, trovando una felice connessione con il produttore trevigiano Massimo Belluzzo di Zetagroup, che aveva la mia stessa visione».

Come si compone il documentario?

«Non è stato facile condensare in cinquanta minuti la vita di Faggin ma è stato un esercizio positivo, il documentario ha un bel ritmo e sta avendo grande successo perché non annoia mai. Lo abbiamo costruito attraverso le testimonianze di Federico Faggin, la moglie Elvia e la figlia Marzia, raccolte facendo in modo che si dimenticassero delle telecamere e parlassero spontaneamente, perché lo spettatore ne cogliesse l’autenticità. La narrazione è stata arricchita inoltre da immagini dei cimeli di famiglia, come fotografie private o medaglie, a cui abbiamo aggiunto filmati dalle teche Rai per dare un contesto storico. Raccontiamo le quattro vite di Faggin: il periodo della formazione in Italia, il trasferimento negli Stati Uniti e l’invenzione del microcip, la sua figura di imprenditore e infine il risveglio spirituale con le sue nuove ricerche sulla fisica quantistica abbinata alla coscienza».

Che ritratto emerge?

«La grandezza del personaggio anche nella sua intimità, un uomo che ha dovuto superare prove importanti ed è riuscito ad andare avanti, restando sempre se stesso, estremamente umile, alla mano, mai un segno di superbia, sarebbe potuto diventare uno dei più ricchi del pianeta, ma non gli importava. C’è una parte di Faggin che in fondo è rimasta bambina, con un sogno che non ha potuto realizzare, ma non voglio svelarlo per non rovinare la sorpresa, poiché questo aspetto lo rende ancora più simpatico. E’ un ritratto sincero che sono riuscito a far emergere anche grazie ad Alessandro Visciano e Paolo Guerrieri, i miei coautori, e che porta un messaggio positivo: con lo spirito di collaborazione e il vero rispetto si può affrontare il malessere di una società come quella attuale, basata sulla competitività estrema».

Una società che lei, nel suo ultimo libro, definisce «del ricatto», perché?

«L’analisi che propongo ha un taglio originale, indagando la causa trasversale e pervasiva della disperazione esistenziale di oggi, che vede ad esempio un terzo della popolazione italiana fare uso di psicofarmaci, droghe o alcool. Il virus del ricatto ha contaminato relazioni internazionali, politica nazionale, economia, il mondo del lavoro e la società stessa con i meccanismi digitali, fino alla nostra sfera affettiva con il cosiddetto ricatto emotivo. Noi promulghiamo, ad esempio, i valori della Costituzione, ma la retorica di questo virus li erode costantemente e se non viene identificato e nessuno ne parla, si propaga molto velocemente».

Come possiamo difenderci?

«Tolstoj e Gandhi sembrano non c’entrare nulla l’uno con l’altro, ma si scambiavano lettere e pensieri, giungendo alla stessa conclusione: noi abbiamo la grande opportunità di cambiare noi stessi, esercitando un’influenza e creando una concatenazione di persone che la pensano come noi, molto più potente di quanto pensiamo. Se riconosciamo il virus questo perde forza, prendendone consapevolezza la manipolazione del ricatto si ridimensiona. Avere la capacità di creare una nuova coscienza, prima individuale e poi collettiva, può fare miracoli, e come ci dice anche Faggin, ciascuno può contribuire a realizzare una società migliore». —

Riproduzione riservata © il Nord Est