Pietrangeli, il capitano di un’Italia che non c’è più
È morto a novantadue anni Nicola Pietrangeli, unico italiano inserito nella Hall of Fame del tennis mondiale. La camera ardente sarà disposta mercoledì 3 dicembre a partire dalle 9 e fino alle 12, al Foro Italico, nello stadio a lui dedicato

Arcitaliano lo era davvero, Nicola Pietrangeli. Perché aveva un modo tutto suo di attraversare l’Italia, con lo stile impeccabile e una sfrontatezza di fondo, accettabile perché naturale. Molte cose, della sua storia, sembravano uno di quei colpi di polso, con il cambio di direzione, che erano la firma nobile del suo tennis. Un attimo prima era morbido; poi, imprevedibile, mutava traiettoria. Non dovrebbe funzionare così anche la vita?
Chi ha visto Pietrangeli giocare, racconta sempre la stessa versione, l’impatto magico con la classe di uno sport. Fluttuava con leggerezza. Disegnava, gestendo la palla come un confidente discreto: la teneva bassa, radente, vicino al nastro della rete. E improvvisamente, al colpo successivo, la lasciava scattare in avanti, profonda. Quel tocco era più di una cifra tecnica: era una filosofia, un modo di stare al mondo, la seduzione prima della potenza. Oggi quei colpi li descriverebbero in altro modo. Quello che i grandi campioni, dopo un paio di decenni di schemi rigidi, hanno ricominciato a fare. Accorcia il gioco, cambia la rotazione, sovverti lo schema, inventa una palla corta, orienta gli angoli e le velocità. È come una musica. Tu chiamale, se vuoi, variazioni.
Nella memoria collettiva restano le vittorie, a partire dai due trionfi a Parigi. Ma Pietrangeli è stato anche un trattato di sociologia e costume italico; il viveur che spostava l’attenzione dal punteggio all’extra campo, che collezionava incontri e aneddoti come fossero punti. Poi il capitano, l’uomo che portò l’Italia alla sua prima Coppa Davis: dal talento solitario alla guida carismatica, l’evoluzione di un uomo che stava in panchina ma voleva comunque primeggiare.
Con gli anni, il sorriso si era trasformato in qualcosa di tagliente, più di un rovescio in back. Era diventato una cintura nera di borbottio: affettuoso con i ricordi, severo con il presente. Il suo non era stato un tennis di miliardari o di atleti-aziende, c’era una legittima invidia verso lo sport dei campioni come pop star. E così reagiva. Difendeva i suoi record come reliquie, guardava i giovani – soprattutto quelli che lo superavano, come un fuoriclasse rosso – con un incrocio di orgoglio e dissenso.
Poi quelle sue ultima volontà, pronunciate con la serenità dello spirito guida: seppellitemi sotto la terra rossa del campo che porta il mio nome, al Foro Italico. «Lì almeno c’è parcheggio» diceva, con quel modo, tutto romano di prendere a schiaffi le sacralità del destino. «Ci sono tremila posti. Se piove, mettiamo la bara nel sottopassaggio. La musica la sto ancora decidendo. “My Way” all’uscita non sarebbe male». Senza distinguere l’esistenza dal campo, il tabellone dai fatti umani. Un teatro dialettico in cui l’importante è uscire di scena da mattatore. E magari ce lo immagineremo da qualche parte, in alto, dove arrivano solo i pallonetti più verticali, mentre dice: ho vinto ancora, nessuno saprà mai morire bene come me.
Era il capitano di un’Italia che non c’è più, divorata dalle massificazioni occidentali e dalle culture omologate: un’Italia vanesia ma elegante, ambiziosa ma leggera. Ora che ha stretto la mano al destino, game, set and match, ci resta la terra rossa sotto le suole e la sensazione di sentirla vibrare sotto i piedi.
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