Fiano contestato a Ca’ Foscari, Anna Foa: «Atto antisemita, ma non c’entra con il 1938»
«Assolutamente intollerabile. Ma quello che è successo a Ca’ Foscari non è sovrapponibile al 1938». Lo sostiene Anna Foa, ecco l’intervista

Professoressa Anna Foa, Emanuele Fiano, presidente di Sinistra per Israele, non ha potuto parlare a Ca’Foscari, interrotto dal collettivo Sumud e dal Fronte Gioventù Comunista. Tollerabile?
«Assolutamente intollerabile. Tutta la mia solidarietà a Fiano. Questa è la prima cosa da dire, ed è definitiva».
Fiano ha collegato l’episodio al 1938, quando il padre venne espulso da un’aula: vede analogie tra i due periodi storici?
«Le due situazioni sono sovrapponibili per quanto riguarda la sua recezione emotiva, ma non dal punto di vista storico. Il ’38 è stato l’introduzione di un antisemitismo di Stato che ha tolto i ragazzi dalle scuole e attuato norme che hanno ridotto gli ebrei a cittadini di rango inferiore, fino al ’43. Il paragone semmai può essere con gli anni ’70, quando Autonomia Operaia girava nei cortili delle facoltà minacciando quanti non erano d’accordo».
Nel suo libro “Il suicidio di Israele” lei parla di crisi dell’identità israeliana, di democrazia e di diritti: ritiene che l’episodio a Ca’ Foscari sia parte di una crisi di dialogo su questi temi, con una forte polarizzazione?
«Certamente c’è una polarizzazione. E riguarda la crescita dell’opinione pubblica contraria a quello che ha fatto Israele, contraria al genocidio di Gaza. Uso il termine genocidio in senso politico e non strettamente giuridico, come d’altronde molti fanno in Israele.
C’è poi una parte che pensa che Israele dovrebbe essere distrutta, e quello che è successo a Fiano viene da lì. Ma è una situazione che in qualche modo dà ragione a Netanyahu e ad Hamas. Diciamo che ci sono due parti, quella per cui tutto è antisemitismo e quella che vuole disfarsi della presenza ebraica, come Netanyahu di quella palestinese.
Chi si è battuto e si batte contro la politica del governo israeliano dovrebbe fare attenzione a non cadere in questa trappola dell’estrema sinistra, o comunque di quelli che non vogliono fare parlare gli israeliani rischiando di scivolare nell’antisemitismo. Si finisce per dare retta a Netanyahu, per cui tutto il mondo è antisemita. Io non credo che tutto il mondo sia antisemita, ma penso che quello che è successo a Fiano sia un episodio di antisemitismo».
A fronte di quello che è successo a Gaza c’è il rischio di una perdita di forza degli insegnamenti usciti dall’Olocausto?
«Sarà molto difficile celebrare la prossima Giornata della Memoria. C’è una via strettissima: da una parte la necessità di ricordare, ed è assolutamente importante farlo, e dall’altra parte bisognerà parlare dell’oggi e dire cosa sta succedendo».
Cosa ne pensa di pietre di inciampo per le vittime palestinesi?
«Mi sembra una buona idea perché le pietre di inciampo non sono solo per gli ebrei; sono nate per ricordare l’Olocausto di rom e sinti. Potrebbero riguardare i prigionieri palestinesi: i giornalisti, i dottori, la bambina. Ma c’è un problema: le pietre di inciampo sono solitamente sulla soglia di casa della persona. E a Gaza non ci sono più né porte né scale».
A rendere più grave l’accaduto di Venezia è che sia avvenuto in un’università, centro di libero pensiero. Ma le università hanno fatto sentire la loro voce libera in questi mesi tragici? Gli studenti, per esempio, chiedevano di interrompere la collaborazione con Israele su certi progetti.
«Le Università come centro di cultura sono anche in qualche modo centro politico. La cultura è politica. Credo che in alcuni casi le università italiane abbiano svolto un ruolo minore di quello, per esempio, delle israeliane che sono state all’avanguardia della lotta per la pace e contro lo sterminio dei palestinesi. Non credo ci sia sempre stata una risposta adeguata alle richieste degli studenti, anche se a volte esse erano fatte in modi non condivisibili e senza sapere bene come stavano le cose. Sia chiaro, il mio è un discorso generale e non riguarda le istituzioni in cui c’è stata invece attenzione delle autorità accademiche. Che, per esempio, sono riuscite a fare arrivare studenti e docenti palestinesi, dimostrando impegno di solidarietà e di aiuto».
Quale azione suggerirebbe all’Università, agli studenti e alle comunità coinvolte per trasformare questo episodio esecrabile in un’opportunità di dialogo?
«Penso soprattutto alle comunità ebraiche che hanno taciuto o che si sono schierate con Netanyahu. Credo che servirebbe un dibattito ampio e serio su una questione che tocca tutti da vicino e non solo gli ebrei, che tocca il nostro modo di essere e di rapportarci al mondo. Riguarda il nostro futuro e il nostro passato.
C’è bisogno di un confronto più ampio, invitando anche chi ha posizioni estreme e squadristiche, chi impedisce agli altri di parlare: potrebbero venire e dire la loro opinione, dibattendo anziché urlando e facendo gli squadristi. Non si faccia come fanno loro: li si faccia parlare. Il dibattito in questo momento è importantissimo».
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