Con l’intelligenza artificiale a scuola di multitasking
Tutta questa evoluzione velocissima che stiamo vivendo impatta immediatamente sul modo in cui trasmettiamo le cose ai nostri ragazzi

Avete presente quando un bambino piccolo è assorto nel suo mondo di giochi e voi adulti parlate pensando che non vi ascolti? A un certo punto dite: “Pensa che prima mi aveva chiesto la merenda, ora gioca e se ne è dimenticata!” Senza nemmeno guardarvi né smettere di giocare, risponderà: “Non me ne sono dimenticata!” E voi vi guarderete, basiti, pensando come abbia fatto a giocare, ascoltare e rispondere contemporaneamente.
È un’abilità che hanno tutti i bambini piccoli ma purtroppo sparisce con l’età dopo la fase del pruning, o “potatura”.
Le IA moderne arrivate novembre 2022 in un certo senso sono come i bambini piccoli e hanno questa favolosa capacità di essere in ascolto e in connessione con tutto contemporaneamente – Everything, everywhere, all at once, come recita il titolo di un film proprio del 2022.
Una modalità multitasking molto dispendiosa che non potremmo reggere per tutta una vita e che proprio per questo motivo a un certo punto, quando le connessioni neurali diventano eccessive e antieconomiche da gestire, sfoltiamo nella fase della potatura e in questo modo progressivamente acquisiamo la modalità focalizzata, che invece i bambini non hanno, conservando le connessioni significative e scartando quelle ridondanti.
Basandosi su questa nostra capacità perduta, negli ultimi 15-20 anni abbiamo visto l’ideale del multitasking sul lavoro imporsi come standard. Ora per fortuna sta lentamente arretrando affossato dai risultati delle ricerche che dimostrano quello che abbiamo sempre saputo: le persone adulte, per lavorare, hanno bisogno della focalizzazione su singoli task in maniera seriale e non parallela, ossia da eseguire e completare uno dopo l’altro e non tutti assieme.
Tenere molti progetti aperti allo stesso tempo ci dà l’illusione di essere più produttivi solo perché nel bilancio non viene mai conteggiato il costo di rifocalizzazione, ovvero quanta energia e tempo si spende a riprendere in mano ciò che si stava facendo prima di interrompere il task precedente, né il costo di monitoraggio di tutto quanto non è stato terminato.
Alla fine dei giochi, lavorando in parallelo si finisce più tardi e si arriva al termine della lista di lavori molto più stanchi e provati di come ci si sarebbe arrivati concentrandosi su un compito alla volta.
Gloria Mark, psicologa e ricercatrice statunitense, nel suo recente Attention Span (2023) ha illustrato i risultati delle ricerche condotte in multinazionali come la Microsoft e ha scoperto che l’impiegato medio di una grande azienda di oggi – e non lo studente svogliato – saltella da una finestra all’altra sul suo computer dell’ufficio in media ogni 47 secondi. Detto in altre parole, ha una soglia dell’attenzione così bassa da non riuscire a rimanere concentrato per più di un minuto su un singolo compito assegnato in orario di lavoro.
La cosa fa quasi ridere se pensiamo a quante volte compare la parola “produttività” associata alla descrizione di un prodotto informatico per le aziende. Purtroppo l’idea del multitasking rimane affascinante per molti perché fa leva su un meccanismo psicologico molto forte, l’effetto Zeigarnik, che è la tendenza a ricordare di più i compiti o le azioni incompiute o interrotte piuttosto che quelli portati a termine.
E come aveva già dimostrato negli anni ’60 lo psicologo Mihály Csíkszentmihályi (quello del Flow), gli esseri umani non riescono a elaborare più di 100-120 bit al secondo di informazioni, corrispondenti all’incirca alla capacità di capire ogni singola parola di due persone che ci parlano in contemporanea.
La sola idea di poterci concentrare su due, o addirittura più compiti in cui dobbiamo intervenire attivamente e non soltanto interpretare passivamente dati in entrata doveva essere scartata fin dall’inizio. Ma tant’è, abbiamo un amore speciale per le cause perse e quindi per un bel pezzo abbiamo creduto di potercela fare.
Oggi che abbiamo costruito delle macchine capaci di fare le cose che sapevamo fare da bambini ma con le nostre competenze da adulti esperti, forse è solo naturale sentirsi sopraffatti da un senso atavico di paura di essere sostituiti, di risultare inutili, in definitiva di perdere pezzi della nostra identità.
Quindi, la solita domanda: che fare? La storia non è che ci sia molto d’aiuto perché non abbiamo mai vissuto una situazione simile di pericolo esistenziale ma in cui abbiamo anche il potere di impedirlo con una semplice decisione, giacché i progettisti siamo noi.
Tuttavia, sembra che economia e politica non abbiano elaborato un piano e continuino semplicemente ad affidarsi all’idea neoliberista di sviluppo infinito, e dai centri di istruzione e ricerca non è ancora uscita un’alternativa ideologica meditata, dettagliata e convincente.
Almeno, non così solida da guadagnarsi consenso ed essere largamente adottata. Sempre per via del mio lavoro (insegnante), mi interessa molto tutta questa evoluzione velocissima che stiamo vivendo perché impatta immediatamente sul modo in cui trasmettiamo le cose ai nostri ragazzi.
Negli Stati Uniti, anche grazie a un’inchiesta del Wall Street Journal, sappiamo che le IA sono già uno “strumento di lavoro” degli studenti: nella scuola anglosassone le valutazioni, sia alle superiori che all’università, sono basate perlopiù su essays, cioè temini in forma scritta, e non ci voleva un genio per capire che le IA sarebbero state usate in massa dagli studenti per generare testi appena appena accettabili per passare gli esami, riducendo così di moltissimo il tempo impiegato per scriverli.
Una proposta di Salvatore Attardo, professore di linguistica alla A&M University in Texas, ma di formazione accademica completamente italiana, è in sostanza un ritorno al passato solo più strutturato e sereno: torniamo ai soli orali.
Dal punto di vista della valutazione, forse un alleggerimento dello stress per tutti. Dal punto di vista di chi si occupa dell’organizzazione del lavoro, invece, un pericoloso precedente. Ritornare a una valutazione orale, fortemente analogica e poco riconducibile a parametri e indicatori, va in direzione fortemente contraria allo spirito del tempo.
È innegabile che la tendenza globale sia oggi di trovare un’unità di misura per ogni attività e poter così quantificare un ROI (Return on Investment) sull’attività stessa.
Ma la conoscenza è per sua natura multidimensionale e più qualificabile che quantificabile sebbene negli ultimi 20-30 anni si sia cercato in tutti i modi di renderla digeribile a descrittori e livelli: ne sanno qualcosa i ricercatori che devono combattere con metriche, mediane, Impact Factor e ovviamente numero di pubblicazioni.
Publish or perish, si dice ormai dagli anni ’80 con la solita schietta asciuttezza formulaica inglese. Alcuni think-tank come il Center for Humane Technology e il Future of Life Institute negli Usa, o il Future of Humanity Institute dell’Università di Oxford, chiuso poco più di un anno fa, hanno messo in guardia negli ultimi vent’anni contro l’eccessiva spinta alla penetrazione tecnologica incontrollata nella vita di tutti i giorni e verso la misurazione di ogni aspetto della nostra vita, dal numero di follower all’ossigenazione del sangue tenuta sotto controllo 24/7 con device indossabili tipo smart ring.
La narrazione corrente tuttavia si è perlopiù appiattita sull’entusiasmo e l’accettazione dell’equazione implicita tra innovazione e progresso. Forse solo adesso – perché è passato abbastanza tempo e abbiamo una mole sufficiente di dati – cominciano a circolare abbastanza idee e studi sull’impatto di tutto lo tsunami tecnologico che ci ha travolti dalla bolla delle dot-com (2000) a oggi, un quarto di secolo che per densità di avvenimenti sembra almeno il doppio.
L’innovazione procede veloce, il lavoro cerca di stare al passo con risultati alterni e la scuola procede lenta; la politica probabilmente rimane più indietro di tutti e annaspa, spesso rifugiandosi nel conservatorismo becero per paura di affrontare un futuro che, oggettivamente, a volte spaventa anche i più temerari.
Chi oggi dovrebbe fare da guida, specialmente in politica ma anche nella scuola e nelle famiglie, spesso sceglie la strada facile e replica, magari aggiornandoli leggermente, schemi ricevuti che però mostrano le corde e fra poco non andranno più bene per un mondo in cui ogni giorno cambia qualcosa di importante in una sorta di rivoluzione permanente.
Il Regolamento Europeo sulla IA è un buon primo passo per definire come vogliamo questo futuro, ma come spesso accade l’UE è lenta nelle sue deliberazioni. Non è ad oggi ben chiaro cosa si voglia fare del principio di Copyright con cui conviviamo da quasi 140 anni, da quando è stato approvato a Berna nel 1886, dato che per la prima volta in una sede ufficiale Meta ha dichiarato esplicitamente di avere usato (“in maniera corretta”) materiale protetto da diritto d’autore per addestrare i suoi LLM.
Non avranno certo fatto diversamente anche le altre aziende che non hanno mai rivelato i materiali di training come Google, Microsoft, Amazon, Anthropic (Claude) o X (Grok). E se tutte queste pratiche passano come accettabili e nella pratica accettate da molti anni senza grandi opposizioni, significa che prima di tutto i lavori creativi – ma molto presto anche per tutti gli altri, a cominciare da quelli che coinvolgono i brevetti – non saranno più lavori appetibili perché troppo facilmente esposti al furto.
Se per produrre uno studio scientifico, un romanzo, un articolo, ci vogliono giorni o mesi di lavoro “tradizionale”, ma una IA lo assorbe e rielabora in un attimo in migliaia di query al secondo senza corrispondere niente e generando ricavi miliardari – $200/mese per l’abbonamento Pro di ChatGPT – allora il senso di investire anni di studio e pratica per una professione qualsiasi, dal romanziere all’ingegnere, comincia a non essere più molto chiaro. Per un adulto oggi può essere più semplice riciclarsi utilizzando le competenze acquisite in tempi analogici, ma cosa dobbiamo rispondere agli studenti che ogni giorno vengono a scuola e vedono che quello che faticosamente devono imparare con lentezza viene risolto in pochissimi secondi da una app? Gli studenti, come noi tutti, capiscono che il lavoro e la scuola non possono essere più gli stessi.
Di sicuro non lo saranno in futuro, ma cosa dobbiamo fare in quest’epoca di transizione? Quale mondo del lavoro ci attende tra cinque anni, cioè quando i quattordicenni della prima superiore di oggi saranno diplomati? E tra dieci, quando saranno laureati? Non siamo capaci di fare previsioni, perché dieci anni sono quattro volte il periodo che è intercorso dal rilascio di ChatGPT 3 a oggi e in questo tempo la progressione è stata impetuosa e i tempi di raggiungimento della IAG – Intelligenza Artificiale Generale, che alcuni chiamano superintelligenza – sono stati continuamente aggiornati al ribasso fino a certe previsioni che la stimano con buona certezza per il 2027.
La discussione sull’IA non è soltanto un passatempo da nerd che immaginano applicazioni futuristiche. La pervasività di questo strumento lo qualifica più come un’infrastruttura che come un tool e quindi lo troveremo, anzi già lo troviamo, alla base di molti processi sottostanti alle nostre vite di tutti i giorni.
Ma mi sembra che in giro ci si agiti attorno a dettagli senza ancora mettere in discussione il quadro generale, che continua a prevedere come ipotesi di fondo un’accelerazione senza freni che considera positivi qualsiasi progresso e aumento di consumi, valutando invece rallentamenti, diminuzioni e contrazioni come sempre e comunque negative.
Date queste premesse, che non sono frutto della natura ma di una ideologia, su questo terreno le IA ci batteranno sempre proprio perché riescono a lavorare costantemente veloci e in modalità multitasking, e il senso di ciò che si impara a scuola tenderà a non essere così chiaro e accettato. La scuola e l’apprendimento umano in generale hanno bisogno di lentezza e pensiero profondo, che non si possono raggiungere in brevi archi di tempo e soprattutto non possono competere con il paradigma del multitasking.
L’organizzazione della scuola è ancora favorevole allo sviluppo di questo pensiero perché riserva quasi ogni giorno molte ore obbligatorie in esclusiva a poche attività di apprendimento. Il fattore che manca all’appello è l’accettazione sociale del fatto che la scuola non deve (perché non può) inseguire la velocità della comunicazione digitale, multitasking, performativa. Come ha scritto il premio Nobel Daniel Kahneman, abbiamo fondamentalmente due sistemi di pensiero, uno lento e uno veloce, e quello veloce (e superficiale) non andrebbe considerato come lo standard aureo a cui tendere ma solo come uno dei tanti strumenti disponibili.
La scuola rende al meglio se insegna a coltivare il sistema lento e profondo, ma per fare ciò ha bisogno del riconoscimento sociale del suo ruolo, profondamente diverso dalla logica economica di velocità e di profitto che sottostà al predominio del pensiero veloce. Dobbiamo arrenderci all’idea che possiamo avere l’elasticità e il multitasking dei bambini soltanto quando siamo bambini.
Come dice molto bene Benjamin Breen, professore di storia all’Università della California (traduzione mia): “[...] nel lungo termine il danno si farà sentire sugli studenti. Rendendo l’impegno un fattore facoltativo nell’istruzione superiore, anziché il suo scopo principale, gli LLM [Large Language Models] rischiano di produrre una generazione di studenti che semplicemente non ha mai sperimentato la sensazione di un lavoro intellettuale concentrato. Gli studenti che non hanno mai affrontato il blocco dello scrittore sono anche studenti che non hanno mai sperimentato il gioioso stato di flow che si prova quando si supera il blocco dello scrittore. Gli studenti che non hanno mai fatto ore di ricerche inutili in una biblioteca sono anche studenti che fondamentalmente, e tristemente, non sanno davvero a cosa serva, una biblioteca”.
In sostanza, cercare di rendere la scuola “più vicina al mondo del lavoro” se da un lato va bene perché è giusto creare una connessione con la realtà, dall’altro lato se spinta all’estremo per inseguire un paradigma di efficienza rischia di snaturarne il compito, che non è di facilitare la produzione ma di insegnare alle persone a sapere, saper fare e avere gli strumenti per un apprendimento permanente, e non produrre degli automi lenti in competizione con un’economia moderna di automi veloci.
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