Il cibo a pezzi: la guerra delle biodiversità
Esce in libreria un volume sulle nuove frontiere tecnologiche della nutrizione, in difesa (anche) di chi si batte per scelte alimentari sostenibili: ecco un’anticipazione

Chi scrive si trovava a Bruxelles in una delle giornate di protesta dei contadini valloni e ne conserva le immagini. Il luogo era place du Luxembourg e la gran parte delle vie di accesso era occupata da giganteschi trattori che, al di là delle macchie di fango, si intuivano nuovi e modernissimi. I ragazzi – perché in larga misura si trattava di ragazzi di età compresa fra i venti e i trent’anni – vi avevano dormito dentro la notte, dopo un viaggio presumibilmente di molti chilometri. Quella mattina, saranno state le nove, erano intenti ad accatastare in mezzo alla piazza enormi pneumatici. Cinquanta metri più in là – vestiti come giganteschi robocop e protetti da caschi, visiere e scudi in plexiglas – c’erano una dozzina di poliziotti che stendevano un cordone protettivo davanti a una delle entrate della Comunità Europea.
Erano, questi ragazzi, questi giovani uomini, vestiti in modo talmente povero, come io nella mia vita non ne vidi mai. Giacche a vento fruste, pantaloni usurati, scarpe rese impermeabili dal reiterato affondare nel fango e nel letame. Emanavano tutti non già un odore che sarebbe stato impossibile da cogliere nel lezzo prevalente, ma un’impronta di sporcizia come ne vidi raramente ed erano tutti – questo forse era il tratto principale – uguali, tutti perfettamente equiparabili a quella soglia di necessità basica in cui l’unica cosa che conta è l’avere da fumare, di che coprirsi, di che mangiare, di che bere. Non vi era in essi il ben che minimo elemento di superfluo.
Più in là, a una trentina di metri da noi lungo i marciapiedi che rinchiudono place du Luxembourg, passavano i cittadini della grande città, gli innumerevoli funzionari e funzionarie della comunità, gli anziani, le mamme, le giovani, gli studenti, tutti e tutte a loro volta attraversati da segni anche minimi di eleganza, da un decoro certo e aggraziato, da un’agiatezza mai ostentata ma sicura, di cui si coglieva la lenta e lunga sedimentazione. Questo mi colpì. Del pari, i contadini, questi giovani uomini, anch’essi erano esito del tempo, di un tempo tuttavia antico, mai passato, mai trascorso, in fondo così simile a quello dei propri padri, nonni, bisnonni. E accanto a loro, lucenti anche sotto il fango, i trattori – mi assicuravano i miei amici – di nuova generazione, il loro capitale, la loro ragione di vita. (…)
In tutti questi casi troviamo la certificazione di una frattura progressiva fra rappresentanti e rappresentati e di un’usura sempre più profonda del processo – la democrazia e il suo punto più alto, il voto – che ne sancisce il rapporto. Machiavelli a riguardo non avrebbe alcun dubbio e concluderebbe osservando che “lo Principe” ha smarrito il suo “Populo”. Il grande studioso inglese Colin Crouch registrerebbe tutto ciò come l’inevitabile ricaduta di una stagione storica che egli definisce della “postdemocrazia”, una stagione in cui “la forza più evidente in campo è la globalizzazione economica. Le grandi multinazionali hanno spesso superato la capacità di amministrare di singoli stati nazionali, semplicemente la democrazia non ha tenuto il passo con la corsa del capitalismo alla globalizzazione.
Al massimo riesce ad amministrare certi raggruppamenti internazionali di stati, ma anche quello di gran lunga più importante, l’Unione Europea, è un goffo pigmeo a paragone con gli agili giganti delle multinazionali. E comunque, la sua qualità democratica, anche applicando standard minimi, è scarsa”.Uno storico e filosofo dello spessore di Luciano Canfora ricondurrebbe i fenomeni in atto alla classica contrapposizione fra demos e oligarchie, delle quali il fenomeno dei “non eletti” – a partire dalla tecnocrazia europea per finire con i “nominati” chiamati a svolgere un ruolo di supplenza (vedi Draghi) – rappresenta l’aspetto più evidente.
Un altro studioso delle dinamiche politiche come il belga David Van Reybrouck prenderebbe atto del fallimento di tutte le ipotesi democratiche messe in campo a partire da quella tradizionale ormai priva del fondamentale attributo della “legittimazione”, passando per quella tecnocratica volta a restituire “efficienza” al sistema attraverso il ruolo della competenza, per chiudere con quella fallimentare definita “populistica” per suggerire un approdo tanto antico quanto suggestivo: quello del sorteggio.Al di là delle analisi, delle interpretazioni e delle vie d’uscita, e alla luce invece della molteplicità di occasioni in cui il parere di un ristretto gruppo di decisori a basso tasso di legittimazione democratica è sembrato imporre i suoi orientamenti ai più – e nei metodi e nei contenuti –, le prospettive per il futuro non appaiono rosee.
Ci sono tutti gli elementi per dire che lo stato delle nostre democrazie lascia molto a desiderare e che le tendenze – per dirla con Canfora – oligarchiche sembrano aver preso nettamente il sopravvento. Il che è un problema sia per i popoli europei in sé – di quale e di quanta saggezza i nostri oligarchi saranno capaci di far uso? – sia per la vendita in generale del prodotto democrazia. Sì, perché alla fine è proprio il gigantesco calo delle vendite del prodotto democrazia a preoccupare di più e a perdere sensibili quote di mercato.
Come interpretare diversamente, infatti, il dato sull’affluenza registrato alle scorse elezioni europee? Con molta freddezza e il necessario disincanto, dobbiamo osservare che nella fase più delicata della giovane storia dell’Unione Europea, con una guerra in corso che indirettamente vede il governo dell’UE coinvolto (stiamo parlando dell’Ucraina) e che riaccende i fantasmi di un conflitto globale, con una crescente pressione dei migranti dalle sponde del Mediterraneo aggravata dal conflitto arabo-israeliano, con una serie di spinte centrifughe che investono una molteplicità di paesi e soprattutto con una crescente faglia fra i valori asseriti e le politiche adottate, non più di cinque cittadini europei su dieci vanno al voto. Si tratta di un gigantesco fallimento in primo luogo del “racconto” europeo, reso fioco dal doppio “catino” rappresentato da un lato da chi a vario titolo si ritiene il solo interprete dei cosiddetti valori liberali, e dall’altro da chi, anche in questo caso con diverse sfumature, si rilancia come unico veicolo dei valori della nazione. Entrambi, nella loro minorità, trascurano l’altro “catino”, un’autentica tinozza, che vale il doppio di ciascuno di loro e contiene il volto oscuro dell’elettorato.
E accade quindi che le rappresentanze politiche di queste frazioni minori del demos, nel loro assordante cicaleccio, altro non scelgano che l’enfatizzazione del “nemico”. —
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