Referendum e legge elettorale: ecco il percorso preparato da Meloni

La premier valuta rischi e tempi: irto di ostacoli il via libera alla riforma della giustizia. Se passerà il “sì”, allora sotto con il proporzionale da introdurre prima delle Politiche

Carlo Bertini

Una cosa certamente non fa difetto a “Giorgina”, come la chiamano i “fratelli” che hanno confidenza: l’abilità tattica, la capacità di sgusciare in dribbling in mezzo a nugoli di avversari. E a guardare la road map che ha in mente la premier per i prossimi mesi, tra referendum e riforme tutte sul filo, viene una sorta di inebriamento, come a rimirare una piroetta ben riuscita: ogni mossa studiata insieme ai suoi strateghi svela che un certo virtuosismo, in cui la sequenza dei salti è fondamentale, come nei percorsi a ostacoli dei purosangue a Piazza di Siena.

Prima il referendum sui giudici, forse già l’8 marzo. Poi, se vince il Sì alla riforma, avanti tutta con la legge elettorale. E basta: niente premierato, perché, dopo i brividi di quello sulla Giustizia, non c’è alcuna intenzione di celebrare a ridosso delle politiche un altro referendum pericolosissimo per la testa di Meloni, sulla Carta Costituzionale e sulla figura di Sergio Mattarella che verrebbe depotenziata dalla riforma.

Niente sprint nemmeno sull’Autonomia differenziata, che ha tanti di quei passaggi obbligati, (pre-intese con le Regioni, sigla delle intese in Conferenza unificata, delega sui Lep da far votare alle Camere, eccetera eccetera) da far venire un capogiro a tutti, tranne a Roberto Calderoli: che con la sua proverbiale tenacia, non dispera di tramutarla in qualcosa di concreto per le Regioni, a cominciare dal Veneto, entro la legislatura.

Purtroppo, il calcolo delle probabilità, scienza inesatta che spesso ci azzecca, prevede che se ne parlerà al prossimo giro. Anche se, per non far arrabbiare i nordisti sul piede di guerra con Matteo Salvini, qualche intesa con le Regioni e qualche passo sulla legge per fissare i Lep in Parlamento si farà, ma l’iter resterà incompleto.

La carne al fuoco è tanta, ma per poterla cucinare va intanto superata una prova determinante, il referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati. Sulla carta facile, in pratica difficile: niente quorum, dunque vince chi va a votare, perde chi sta a casa.

Questo il terrore della destra, perché la psicologia dimostra che chi vuole mantenere una legge già approvata in Parlamento ha meno stimoli a uscire da casa rispetto a chi vuole abolirla. E questo Giorgia lo sa, i suoi pure. E hanno paura.

Dunque, la partecipazione conterà molto ma Meloni, per non rischiare troppo in caso di sconfitta, dovrà pure evitare di politicizzare il referendum, il che non sarà d’aiuto per motivare i suoi fan: quindi sarà una campagna in salita. Ecco perché è meglio sbrigarsi a togliersi il dente. Di qui la convocazione del referendum a marzo.

Per sfruttare i sondaggi che danno in vantaggio i Sì; e per non dare tempo alla sinistra e ai giudici di far campagna contro e consentir loro di mobilitare i milioni di italiani contrari alla riforma.

Se questo primo scoglio però fosse agevolmente superato, allora la maggioranza partirebbe all’attacco sulla nuova legge elettorale.

E qui le cose si fanno ancora più complesse. In ballo c’è un sistema proporzionale, con un premio di maggioranza alla coalizione che supera il 42 per cento dei consensi. Mentre con i 5 stelle si è aperto uno spiraglio, i contatti con le guardie del corpo di Elly Schlein non hanno sortito effetti: il Partito democratico per ora fa muro su una modifica del sistema, ma gli sherpa della premier non disperano di far leva su un particolare diabolico che stuzzica l’ego di ogni leader.

Una legge proporzionale senza sfide nei collegi consentirebbe a Elly di stilare una lista di “nominati” da far eleggere, senza dover sottostare alla contrattazione con gli alleati sui nomi più competitivi da far gareggiare per i posti assegnati con il sistema uninominale. Ciò le consentirebbe di farsi un gruppo parlamentare a sua immagine e somiglianza, spazzando via il vecchio corpaccione del Pd che poco la ama.

Tecnicismi, dietro i quali c’è una semplice verità: con il proporzionale puro è la leader a trainare tutti, con il sistema attuale, che ha una quota di maggioritario, sono i candidati che godono di una dote di voti sul territorio a far la differenza, tanto da poter rivendicare un credito a urne chiuse.

Ma se sul piano personale ai leader ciò può convenire, la nuova legge stroncherebbe le velleità di vittoria del “campo largo”, forte sulla carta proprio nelle sfide dei collegi al Centro-Sud, mentre nella somma dei voti tra i partiti allo stato risulta in testa il centrodestra. Ed è facile prevedere che anche su questo Pd e 5 stelle si scontreranno.

Giorgia invece è sola sul nodo cruciale: l’indicazione del premier sulla scheda non la vuole nessuno, tranne lei. Non va giù a Salvini, men che meno a Tajani, così come Schlein e Conte non la caldeggiano, perché sarebbero costretti a scontrarsi con le primarie di qui a breve.

E qui rispunta il premierato: la sua recente calendarizzazione, oltre a non farlo finire nei sottoscala del Parlamento, serve a dare l’idea di una “cornice” istituzionale a tutto il disegno. Ma a nulla di più, infine resterà un’incompiuta.

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