L’Italia e una Manovra senza coraggio: rassegnati alla crescita zero virgola

Dal vincolo autoimposto alla fuga dagli investimenti in infrastrutture, capitale umano e innovazione: perché la politica resta prigioniera della distribuzione e rinuncia a cambiare il quadro macroeconomico

Paolo CostaPaolo Costa

La discussione parlamentare sulla legge di bilancio 2025 prevede che solo poche centinaia degli oltre 5.000 emendamenti presentati possano essere presi in considerazione. E tutti vincolati al rispetto della regola ferrea dei «saldi invariati». Ogni euro di spesa aggiuntiva deve essere compensato da un taglio equivalente altrove. L’obiettivo, commendevole, è quello di mostrarsi più che diligenti nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica, europei e no, per convincere i nostri creditori a continuare a investire nel debito pubblico italiano.

Uno sforzo che ha ottenuto il piccolo premio dal voto di Moody’s che fa scalare di una posizione dalla quarta, Baa3, alla terza Baa2, la qualità medio-bassa del nostro debito pubblico. Ma un vincolo che produce anche il fatto, meno commendevole, di un Parlamento che, dentro “saldi finanziari” figli di un quadro macroeconomico fondato su una crescita del Pil dello zero virgola, si sente autorizzato a deresponsabilizzarsi completamente dal problema della crescita.

Dagli emendamenti alla manovra 2025 emerge che nessuna forza politica – di governo o di opposizione – si è posto seriamente il tema degli investimenti nel capitale fisso sociale necessario per portare il prodotto potenziale dell’Italia su un sentiero che ne inverta la tendenza al declino – la peggior performance dal 2008 al 2024 tra gli Stati membri della Ue, esclusa la Grecia. E di una Unione europea dalle prestazioni poco brillanti se confrontate con quelle Usa per non parlare della Cina. Una condizione che richiederebbe interventi urgenti in quei “beni pubblici” senza i quali è difficile immaginare un aumento della produttività, per quanta buona volontà ci mettano imprese e lavoratori.

Invece, nella proposta governativa: sulle infrastrutture fisiche i (pochi) 24 miliardi annunciati sono rinviati al 2027-2036, mentre si tagliano 3,2 miliardi agli enti locali tra 2025 e 2029. Sul capitale umano si congelano i salari del pubblico impiego fino al 2030 e si tagliano i fondi a università e ricerca. Sul capitale finanziario si immagina di aiutare la crescita dimensionale delle imprese con 100 milioni: cifra irrisoria per un Paese malato di nanismo industriale.

In questa prospettiva poco incoraggiante il vincolo dei saldi invariati ha prodotto un effetto perverso. Nonostante gli avvertimenti della Banca d’Italia del Cnel, dell’Istat, dell’Ufficio parlamentare di bilancio, passando per la Corte dei conti, il Parlamento non si è assunto la responsabilità di occuparsi della crescita. Cinicamente: se il quadro macroeconomico è dato, se il Pil crescerà programmaticamente dello zero virgola qualunque cosa si faccia, allora tanto vale concentrarsi su ciò che resta: la distribuzione.

Ecco quindi maggioranza e opposizione impegnate nella stessa gara – strappare qualche emendamento favorevole ai propri elettori di riferimento. Anche l’Ires premiale sugli investimenti in beni strumentali, per fare un esempio raccomandabile, appare, per tempi e modi, più un piccolo presente alla manifattura che un provvedimento efficace.

Nessuno pare dunque volersi chiedere se quel quadro macroeconomico sia proprio ineludibile. Nessuno propone di modificarlo investendo nei fattori che determinano la crescita potenziale. Il dibattito parlamentare si riduce a una competizione tra corporazioni professionali, settori economici, territori, generazioni. Mentre il problema strutturale – la stagnazione ventennale della produttività italiana – resta fuori dall’agenda. Eppure, c’è un dato che dovrebbe scuotere questa sonnolenza collettiva. L’urgenza di invertire la rotta che neanche il Pnrr ha prodotto, mancando di concentrarsi sugli investimenti in infrastrutture, capitale umano, innovazione game changer: quelli capaci di stimolare effetti cumulativi sugli investimenti di imprese e famiglie.

Il paradosso è che il vincolo dei saldi invariati è in Italia auto-imposto e più stringente di quanto richiesto dall'Unione europea. Il nuovo Patto di Stabilità non vieta di aumentare temporaneamente il deficit per investimenti che contribuiscano alla sostenibilità di lungo periodo. Germania, Francia e Spagna hanno fatto scelte diverse, investendo in transizione ecologica, infrastrutture e industria. L’Italia ha scelto invece una prudenza fiscale che condanna il Pil potenziale alla stagnazione rendendo più difficile generare la crescita necessaria anche a ridurre il peso del debito. Mentre altri Paesi cercano di abbattere il rapporto debito/Pil aumentando il denominatore, l’Italia si ostina a cercare di tagliare il numeratore, purtroppo a spese della crescita.

Il risultato è un Parlamento che discute animatamente di come distribuire le briciole. Maggioranza e opposizione litigano su bonus e detrazioni fiscali – tutte questioni legittime, ma tutte interne a un gioco a somma zero che non affronta il problema strutturale. Nessuno propone emendamenti per aumentare la dotazione di infrastrutture digitali, idriche, energetiche. Nessuno chiede un piano straordinario per la formazione Stem (Science, Technology, Egineering, Mathematics) che colmi il gap di 8-17 mila laureati l’anno. Nessuno immagina strumenti per far crescere la dimensione delle imprese italiane. Sono temi espulsi dall’agenda perché richiederebbero di mettere in discussione il vincolo dei saldi invariati, magari affrontando davvero il tema dell’enorme evasione fiscale, e il quadro macroeconomico che lo sottende, magari affrontando il tema di come incanalare il risparmio italiano (grazie al cielo!) ancora abbondante, a finanziare gli investimenti anche nei beni pubblici.

Insomma ci vorrebbe una politica economica di medio lungo periodo - un piano degno di questo nome - che in Italia manca da troppo tempo. È più facile, per tutti, accettare la gabbia e competere al suo interno. Influire sulla carta dei vini del ristorante del Titanic mentre la nave procede nella nebbia anziché cercare di invertirne la rotta. Sperando, solo sperando, di non incappare nell’iceberg. Ma le previsioni di crescita anemica, il fallimento del Pnrr, la stagnazione ventennale della produttività sono segnali inequivocabili: l’iceberg c’è. Continuare a ignorarlo, discutendo del menù, è la forma più insidiosa di irresponsabilità di una classe dirigente.

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