La Via del Cotone è una grande opportunità, ma l’Alto Adriatico deve attrezzarsi

Trieste, Venezia e Ravenna dovrebbero riuscire a presentarsi come uno scalo unico

Paolo CostaPaolo Costa
Una veduta del porto di Trieste (Silvano)
Una veduta del porto di Trieste (Silvano)

La dichiarazione congiunta sottoscritta il 17 aprile scorso a Washington dal presidente Usa Donald Trump e dalla premier italiana Giorgia Meloni rilancia con forza la Via del Cotone: il progetto di corridoio economico Imeec (India - Middle East - Europe Economic Corridor), definito dalle parti come «uno dei più grandi progetti di integrazione economica e connettività di questo secolo».

Definizione non esagerata, se la si rapporta all’obiettivo di valorizzare l’emergere dell’India come nuovo protagonista dell’economia mondiale, ma azzardata, se si tiene conto dell’instabilità geopolitica del Medioriente, e ricca di consistenti vantaggi per il nostro Paese solo se saprà creare le necessarie condizioni infrastrutturali e organizzative.

L’Imeec è il corridoio economico che dovrebbe collegare l’India all’Europa attraverso il Medio Oriente con «un sistema integrato di porti, ferrovie e cavi sottomarini». Una prima tratta marittima della Via del Cotone collegherebbe i porti indiani a quelli degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita; da questi una tratta terrestre attraverserebbe l’Arabia Saudita per raggiungere i porti del Mediterraneo orientale, dai quali un’ulteriore tratta marittima consentirebbe di raggiungere l’Europa.

La collocazione in Alto adriatico del principale terminale europeo della Via del Cotone, che garantisce per la minimizzazione del costo generalizzato di trasporto nella tratta marittima mediterranea, rende evidente i vantaggi che ne potrebbero derivare all’Italia. Dal punto di vista trasportistico, i vantaggi geografici offerti sono gli stessi che avevano consigliato alla Cina di individuare nei porti altoadriatici, prima di Venezia e poi di Trieste, il terminale portuale europeo della sua Via della Seta.

L’accordo Imeec, firmato durante il G7 a presidenza indiana nel settembre 2023, oltre che dall’Italia e dagli Stati Uniti, anche da Unione europea, Francia, Germania, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Israele, è rimasto finora in stallo per l’aggrovigliarsi delle crisi geopolitiche mediorientali. La guerra di Gaza, lo scontro endemico tra Israele e Iran che investe anche il Libano, l’instabilità siriana del dopo Assad, rendono difficile immaginare percorsi ferroviari sicuri tra il Golfo e i porti della costa asiatica del Mediterraneo orientale: da quelli della Siria a quelli possibili in Palestina, passando per quelli del Libano e di Israele.

La recente ripresa di interesse per l’India e la Via del Cotone (dalla visita in India nello scorso febbraio dell’intera Commissione europea di Ursula von der Leyen a quella del vicepresidnte Usa J.D. Vance di questi giorni) si fonda evidentemente su una speranza, sulla necessità di parare le conseguenze geopolitiche della “guerra dei dazi” scatenata dagli Usa di Trump, ma anche, per fortuna, su solide ragioni geoeconomiche.

La speranza è che si arrivi in tempi ragionevoli a una stabilizzazione del Medioriente, con la fine della guerra di Gaza e un qualche accordo di convivenza tra Iran e Israele mediato dagli Usa e dai Paesi arabi moderati. Senza questo, la Via del Cotone non ha futuro. La ragione geopolitica è che la guerra dei dazi rende il mercato indiano la miglior alternativa per l’Unione europea sia a quello Usa sia a quello cinese, divenuti economicamente e/o politicamente meno praticabili.

Ma esiste anche una più solida ragione geoeconomica: il fatto che il baricentro dell’economia mondiale si è spostato e sempre più si sposterà in Asia, dove l’India si sta affiancando ad altre economie emergenti, come Vietnam e Indonesia, nel dar vita a un mercato che una economia necessariamente esportatrice come quella italiana non può più trascurare.

La dichiarazione congiunta Meloni-Trump ci dice che l’Italia sta monitorando la questione, mentre la tempestiva visita del ministro Antonio Tajani a New Dehli ci rassicura che si stanno prendendo le necessarie iniziative.

L’Italia avrebbe dunque molto da guadagnare dallo sviluppo della Via del Cotone. Ma deve evitare due errori. Il primo è di ritenere che l’indubbio vantaggio competitivo legato alla posizione geografica dei porti altoadriatici sia sufficiente a proteggerla dalla concorrenza sia dei porti mediterranei francesi e spagnoli sia, come succede oggi, da quelli del mare del Nord.

C’è bisogno di un salto di scala nell’offerta portuale altoadriatica che oggi, in termini di lunghezza delle banchine e spazi a terra, arriva, sommando Venezia, Ravenna e Trieste, solo a un terzo della scala di Anversa e alla metà di quella di Rotterdam.

Se si vuole seriamente puntare a sfruttare la Via del Cotone occorre attrezzare adeguatamente l'intero sistema portuale dell’Alto Adriatico - da Ravenna a Venezia fino a Trieste - possibilmente in collaborazione con i porti sloveno di Capodistria e croato di Fiume, e organizzarsi per gestire tutti gli scali come un solo porto. L’alternativa e una frustrazione annunciata.

Il secondo errore, da evitare assieme al resto della Ue , è quello di concepire la Via del Cotone come uno strumento per isolare la Cina. Questa visione, che potrebbe essere apprezzata dall'amministrazione Trump, risulterebbe però miope per l’Europa e l’Italia, soggetti esportatori che non possono permettersi masochistiche rinunce.

La sfida è di integrare la Via del Cotone in una visione più ampia e inclusiva delle relazioni commerciali globali, che tenga conto, oltre che di equilibri geopolitici, per loro natura passeggeri, delle crescenti interconnessioni tra le economie del globo destinate a svilupparsi e durare. —

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