Giovani e lavoro, il manager: «In azienda contano crescita e ascolto, non solo stipendi»

Il presidente dell’Unione cristiana imprenditori e dirigenti di Padova: «Le nuove generazioni chiedono tempo, flessibilità e welfare. L’intelligenza artificiale? Deve essere integrata con l’intelligenza collettiva»

Riccardo Sandre
Guido Zanovello, ingegnere in pensione con una carriera importante nei principali studi di ingegneria del territorio
Guido Zanovello, ingegnere in pensione con una carriera importante nei principali studi di ingegneria del territorio

«Nella mia carriera di manager ho visto molte generazioni di giovani. Tanto è cambiato, forse pure troppo, ma una cosa è rimasta uguale tra i migliori candidati: chi entra valuta l’azienda nelle sue possibilità di farlo crescere, di formarlo e di dargli l’opportunità di un percorso professionale soddisfacente».

A dirlo il presidente dell’Ucid, l’Unione cristiana imprenditori e dirigenti di Padova Guido Zanovello, ingegnere in pensione con una carriera importante nei principali studi di ingegneria del territorio oltre che tra i protagonisti, sul piano tecnico, della costruzione del Mose di Venezia.

Cosa è cambiato secondo lei nelle aspettative di un giovane di oggi rispetto ad uno che si affacciava al lavoro negli anni ’80 del secolo scorso?

«I giovani secondo me sono sempre giovani e questo va sempre e comunque preso in considerazione. Hanno forze e ambizioni importanti. I loro sogni e le loro prospettive sono diverse da quelle di un quarantenne o un cinquantenne. L’importante è che capiscano che con la scuola non finisce l’apprendimento, anzi nel lavoro si impara sempre qualcosa di nuovo. Per la verità i migliori colleghi giovani con cui ho avuto a che fare, negli anni ’80 come nel 2000 e oltre, questo lo hanno sempre capito e lo hanno sempre trovato uno stimolo».

E tuttavia c’è una narrazione molto persistente attorno alla figura dei giovani che alla fine del colloquio in azienda rispondono: “vi farò sapere” ribaltando i ruoli consolidati tra datore di lavoro potenziale e candidato. Come mai secondo lei?

«C’è un tema demografico che è innegabile: i giovani sono di meno e hanno nei fatti una leva contrattuale in più rispetto alle generazioni precedenti. Ma c’è anche un’attenzione differente al rapporto tra vita privata e vita lavorativa. Un fatto che è correlato a anche all’aspetto demografico: per fare un figlio e avere una famiglia ci vuole tempo. E proprio questo chiedono i giovani: tempo, flessibilità oraria, smart working, welfare e così via. Tutti strumenti che le aziende più attrezzate offrono ai candidati. Perché anche il mondo delle risorse umane è un mondo che chiede innovazione, strumenti, attenzione al contesto e strategie adeguate».

Secondo lei è corretta l’idea che siano soprattutto i giovani a dover portare innovazione nelle imprese?

«In parte senza dubbio è così anche se quando si comprende che il lavoro è apprendimento continuo, allora tutti possono esserne portatori. Tuttavia nel rapporto tra giovani, innovazione e strutture aziendali rischia di annidarsi una grande insidia, che può essere molto pericolosa: è quella del “si è sempre fatto così”.

È ovvio che quando si chiede ad un giovane di farsi carico di un ruolo strategico come quello di introdurre innovazione e poi gli si risponde con un costante diniego, con un muro di tradizioni e approcci consolidati, allora si crea un cortocircuito per nulla positivo. Per ottenere da una risorsa il meglio che possa dare, tanto più se è di giovane età, bisogna concedere ascolto, spazio e autonomia decisionale progressiva».

C’è poi il tema dell’innovazione vera e propria: l’introduzione massiccia dell’intelligenza artificiale nelle aziende rischia di essere un problema per i giovani e il lavoro?

«Noi come Ucid stiamo lavorando molto su questo tema, anche con conferenze e momenti di approfondimento ad hoc. L’IA di per sé è uno strumento come un altro ma credo che possa essere integrata molto bene e con efficacia anche nei percorsi decisionali delle imprese. Tutto ciò però a patto che a confrontarsi con l’IA non sia un singolo quanto piuttosto un gruppo di persone reali e preparate.

Credo fermamente nel ruolo dell’intelligenza collettiva nell’orientare le decisioni e c’è una letteratura scientifica immensa a riguardo. Sono convinto che l’integrazione dell’Intelligenza artificiale con questo approccio collettivo possa garantire quella svolta di cui si sente il bisogno per garantire alle nostre imprese uno scatto di competitività manageriale che può senza dubbio fare la differenza nel prossimo futuro. Questo anche in quelle Pmi a gestione famigliare che sono il vero nerbo dell’economia di territori, i nostri, sempre più integrati a livello continentale, e sempre più alle prese con un contesto globale sfidante e innovativo». —

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