Venezia non è una priorità per Roma perché non ha una visione strategica
Non è più sufficiente chiedere solo risorse, è necessaria una proposta politica ambiziosa. Porto, fondi per il Mose e sfida dell’overtourism: la città può essere un laboratorio per l'Italia

Venezia è ancora di moda a Roma? È ancora tema di preminente interesse nazionale, come recita solennemente l’articolo 1 della legge speciale del 1973? A giudicare dalle cronache di queste settimane, parrebbe di no.
Le difficoltà nel pagare i lavori del Mose, i ritardi cronici nell’avvio operativo dell’Autorità per la Laguna, l’incertezza sui finanziamenti per la gestione ordinaria del sistema di paratie mobili: sono tutti segnali di un interesse declinante. Certo, una parte di questo pasticcio è figlia del clima generale che domina i conti pubblici italiani.
Un contesto da “Bambole, non c’è una lira” nel quale trovare risorse per qualsiasi progetto diventa un’impresa titanica. Alla fine la pressione del sindaco di Venezia e quella bipartisan dei senatori veneziani ha fatto anche quest’anno il miracolo di uno stanziamento speciale. Non tutto quello che sarebbe necessario, ma sufficiente a sopravvivere per un altro anno. Ma la situazione di fondo non cambia e sarebbe troppo facile attribuire tutto alla ristrettezza generale dei bilanci pubblici.
Il vero problema è più profondo e riguarda la percezione politica della priorità veneziana. Quando, tra il 1996 e il 1998, l’Italia si preparava all’ingresso nell’euro imponendo ai cittadini sacrifici durissimi – ricordate l’eurotassa per l’Europa? – il Parlamento approvava comunque a larghissime maggioranze stanziamenti miliardari per Venezia.
Oggi quel senso di urgenza e quella generosità sono evaporati. Ma la responsabilità non è solo romana. Il minor interesse nazionale è infatti motivato anche dalla scarsa sollecitazione locale. La richiesta principale che arriva oggi da Venezia si riduce a una supplica contabile: 150 milioni di euro l’anno. Una richiesta difficile da giustificare nel contesto delle molteplici urgenze italiane se non viene accompagnata da una visione strategica convincente che, correggendo errori del passato, sappia sottolineare le nuove dimensioni che renderebbero opportuna la conferma della preminenza del problema Venezia nell’agenda nazionale.
il Mose e il “vero” porto di Venezia
L’errore da correggere riguarda il completamento del Mose. Comune di Venezia e Regione del Veneto, pur autorevoli membri del Comitatone ex legge speciale, non hanno preteso con fermezza che venisse realizzato il “vero” completamento dell’opera: quella struttura di accesso permanente al porto, che avrebbe dovuto garantire la piena navigabilità anche a paratie mobili alzate, prevista come condizione di approvazione del Mose nel 2003. Quell’impegno prevedeva: una conca di navigazione a Malamocco degna di questo nome e un terminale portuale offshore capace di accogliere anche le più grandi porta container, collegato poi via conca al porto interno di Marghera. Un progetto che giace oggi nei cassetti dell’Autorità Portuale abbandonato di soppiatto dal Governo senza che ci fossero reazioni locali apprezzabili. Progetto ripreso dal governo Draghi, ma consegnato a un dilatorio “concorso di idee”.
Ma, al di là degli errori del passato, Venezia potrebbe e dovrebbe oggi rivendicare la propria preminenza nazionale anche su basi nuove, ancora più solide. Due motivazioni in particolare renderebbero difficilmente contestabile la richiesta di attenzione e risorse adeguate.
La prima riguarda il tema della “rivitalizzazione” di Venezia e della sua laguna. Non è un orpello retorico: è l’altra faccia imprescindibile della salvaguardia, come chiaramente indicato nel famoso articolo 1 della legge speciale del 1973, quello che affida Venezia alla responsabilità della Repubblica. Non si può salvare l’urbs, il costruito storico, se si lascia morire la civitas, la comunità che la abita. E oggi la civitas veneziana è in pericolo mortale, schiacciata dalla monocultura turistica.
Proprio su questo fronte Venezia potrebbe proporsi come laboratorio nazionale – anzi europeo, forse mondiale – della gestione intelligente dell’overtourism. È un tema che riguarda decine di città storiche in Italia (da Firenze a Roma, da Siena a Napoli) e centinaia di destinazioni turistiche nel mondo.
L’innovazione nella tradizione
Venezia ha tutte le carte in regola per sperimentare soluzioni innovative. Ha già introdotto il contributo di accesso. Sta lavorando su sistemi di prenotazione e controllo dei flussi. Ma la vera partita si gioca su un piano più ambizioso: quello delle misure “antibiotiche” – gestione rigorosa della capacità di carico turistico da definire e far rispettare –, accompagnate da misure “probiotiche”, di sviluppo di una base economica alternativa a quella turistica. Ed è qui che si chiude il cerchio, riportandoci al tema portuale.
Lo sviluppo di una base economica non turistica per Venezia e per l’area metropolitana che la circonda (includendo Padova e Treviso) non può che passare attraverso la valorizzazione delle due “porte sul mondo” di cui la città dispone: il porto commerciale e l’aeroporto Marco Polo. Un porto di Venezia reso pienamente competitivo a livello globale genererebbe direttamente e indirettamente decine di migliaia di posti di lavoro qualificati nel settore della logistica e della manifattura leggera “portocentrica” . Una comunità metropolitana prospera, con una base economica diversificata, può anche permettersi di contenere la pressione turistica sul suo centro storico. Cosa che non può fare una comunità mono-dipendente dal turismo.
La centralità dell’Alto Adriatico
Ma c’è anche una dimensione che trascende l’interesse locale e investe la collocazione strategica dell’Italia nei flussi commerciali globali. Il porto di Venezia tornato alla piena competitività globale contribuirebbe a rendere effettivo un sogno oggi difficilmente realizzabile puntando solo sul porto di Trieste: rendere l’Alto Adriatico nuovamente centrale sulle rotte globali tra Europa e Asia. Che si tratti della Cina con la sua Via della Seta o dell’India con la sua Via del Cotone. Un sistema portuale adriatico efficiente e integrato – con Venezia, Trieste e Ravenna (e poi con Capodistria e Fiume) che lavorano in sinergia invece che in concorrenza – potrebbe intercettare una quota significativa di quei traffici, con benefici per l’economia del Nord Est e dell’Italia. Il problema, è che questa visione strategica non viene comunicata con la necessaria chiarezza e forza.
Venezia continua a presentarsi a Roma con l’atteggiamento del richiedente. Quello che manca è una proposta politica ambiziosa, una narrazione nuova capace di spiegare perché investire su Venezia significhi investire sul futuro dell’Italia. L’alternativa è che Venezia scivoli definitivamente nell’irrilevanza politica nazionale. Che diventi una voce di bilancio da gestire con fastidio. Non è un destino inevitabile, ma Venezia deve rivendicare la propria centralità non in nome del passato ma del futuro.
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