Berton: «Occhialeria, il giusto mix fra grandi e piccoli»

La presidente di Anfao: «L’italia deve reagire per non perdere competitività. Il numero di aziende operanti nel distretto significa che siamo di fronte alla giusta strategia»

Stefano Vietina
Lorraine Berton
Lorraine Berton

«L’occhialeria è complessivamente in buona salute. Tutti gli indicatori principali, come si nota nella ricerca di Adacta, confermano un trend di crescita nell’ultimo decennio, fatta eccezione per l’anno nero del Covid. È un comparto che ha basi solidissime».

Lo dice Lorraine Berton, presidente di Anfao, l'associazione nazionale dei fabbricanti di articoli ottici: «La nostra capacità manifatturiera non si discute – continua Berton. – Allo stesso tempo non possiamo dare nulla per scontato: le variabili sono innumerevoli, dazi e crisi geopolitiche su tutto. E non sono da sottovalutare, in questo preciso momento storico, nemmeno le difficoltà francesi».

La ricerca si riferisce ai bilanci 2024, come va il 2025?

«Siamo sulle montagne russe. L’era dei dazi, avviata con l’amministrazione Trump, ha provocato finora effetti contrapposti, compresa la corsa allo stoccaggio della merce da parte degli importatori statunitensi. L’Istat calcola per gli articoli di abbigliamento una diminuzione dell’export di circa il 3,6 per cento nel primo semestre 2025: è una percentuale verosimile anche per l’occhialeria. Mi auguro che non ci siano altri colpi di scena, ma siamo molto preoccupati per un settore trainante del made in Italy».

Previsioni per fine anno?

«L’Ufficio studi di Confindustria ha preso in esame tutti gli scenari possibili: con dazi al 15 per cento, una contrazione del Pil è inevitabile. A questo, va aggiunta la svalutazione del dollaro, che per certi versi è più preoccupante. Anche per questo la reazione deve essere immediata in modo da non perdere la competitività conquistata con fatica negli anni. Servono strumenti per liberare gli investimenti in materia di innovazione e internazionalizzazione: nuovi mercati ci sono ma non si conquistano senza una strategia comune. E poi servono soluzioni energetiche a basso costo. Il caro-energia resta uno dei principali freni alla crescita. Su questo, Europa e Governo italiano devono fare di più. In Germania, per evitare contraccolpi nel medio-lungo periodo, l’esecutivo Merz ha avviato un piano infrastrutturale senza precedenti. Dovremo prendere esempio. Infrastrutture efficienti sono la base per un’economia ancorata ai territori e a sviluppo sostenibile».

Il settore appare molto concentrato su 5-6 big, ma c'è ancora posto per nuove aziende?

«Assolutamente sì, come del resto dimostrano i dati occupazionali e dimensionali del distretto. La forza dell’occhialeria italiana è proprio questa: mettere insieme big player e piccole realtà capaci di creare prodotti sempre più belli, innovativi e personalizzati. La dimostrazione più evidente è al Mido di Milano, dove c’è spazio per tutti e dove ognuno può esaltare la sua specificità, la propria meraviglia. Altra testimonianza, meno evidente ma chiara, di quanto ci sia spazio per le piccole realtà è il DaTE (una vetrina dell'innovazione, ndr) che per la prossima edizione ha registrato il tutto esaurito. La contaminazione è sempre più positiva: la stessa logica del terzista è in buona parte superata. Tante aziende vogliono lasciare un loro segno».

Alcune big stanno facendo campagna acquisti.

«Sono processi fisiologici e virtuosi: la capacità dell’occhialeria di promuovere aggregazioni e fusioni, quando necessario, ha messo al riparo il comparto, indotto compreso. L’economia italiana è spesso accusata di nanismo: è una contestazione che non ci riguarda. Il fatto che negli ultimi cinque anni siano aumentati il numero di aziende operanti nel distretto e gli occupati significa che siamo di fronte alla giusta strategia, il mix ideale tra grande, medio e piccolo. Non c’è nessuna cannibalizzazione in atto, ma un riconoscimento reciproco».

Due fra le big, Kering e Thèlios, sono nate recentemente da gruppi internazionali del lusso. Quanto è importante oggi la griffe?

«Produrre il lusso significa essere eccellenti: che le grandi griffe si affidino alle imprese italiane è un chiaro segnale del nostro immenso valore. Il made in Italy sta soprattutto nel know-how, nell’economia della conoscenza e nella capacità di produrre valore aggiunto, coniugando sapienza artigiana ed efficienza industriale. Avere brand forti sul nostro territorio, anche non italiani, ci rafforza».

 

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