«Sostegno agli agricoltori e consumatori informati, la formula NaturaSì per il mangiare sano»
Intervista al presidente Fabio Brescacin che quasi quarant'anni fa, da pioniere, aprì a Conegliano un piccolo negozio di prodotti biologici chiamato Ariele

Oltre 400 milioni di fatturato, più di trecento negozi a insegna NaturaSì e più di trecento aziende agricole biologiche e biodinamiche collegate, di cui sei socie o partecipate. Numeri importanti che raccontano una storia imprenditoriale di successo come quella di EcorNaturaSì. «Ma il nostro obiettivo è generare consapevolezza sull'importanza delle scelte che facciamo quando riempiamo il carrello», spiega il presidente Fabio Brescacin che quasi quarant'anni fa, da pioniere, aprì a Conegliano un piccolo negozio di prodotti biologici chiamato Ariele.
Nel 1985 cosa la spinse a puntare su un modello economico che, all'epoca, era poco diffuso?
«Siamo partiti dall'idea di un'agricoltura che si prendesse cura della terra e non la distruggesse. A metà degli anni Ottanta c'erano le prime avvisaglie di una nuova attenzione per l'ambiente. Eravamo inquieti socialmente e volevamo realizzare qualcosa di sano nel segno dell'equità, della solidarietà e della fratellanza in ambito sociale ed economico. Nel 1986 poi c'è stato il disastro di Cernobyl che ha posto il tema ecologico all'attenzione della gente».
Come sono stati gli inizi dal punto di vista finanziario?
«Siamo partiti con un prestito di trenta milioni di lire, tanta buona volontà e tanto entusiasmo. Abbiamo lavorato molto superando diversi momenti di difficoltà»
La Libera Fondazione antroposofica Rudolf Steiner è il socio di maggioranza di NaturaSì. Questo assetto societario, cosa comporta concretamente?
«Nel Nordest, come in ogni altra parte del mondo, esiste un grande problema che riguarda i passaggi generazionali nelle aziende. Noi siamo partiti con un'idea ed una missione chiare. Ci siamo chiesti come far sopravvivere nel tempo questa idea e abbiamo individuato una forma societaria che la potesse garantire al meglio. La Fondazione permette di raggiungere due obiettivi: il mantenimento nel tempo della mission e la possibilità di passare la gestione alle persone più adatte e competenti liberando i figli dall'onere di dover succedere alla guida dell'azienda. Vediamo quanti problemi hanno le imprese nella fase del passaggio generazionale. L'azienda non è solamente del titolare, è un bene di chi ci lavora, di chi ci ha lavorato, dei clienti, dei fornitori, della società civile. Quindi è un bene comune da salvaguardare. Molti figli non sono adatti a prendere il posto dei genitori, per cui abbiamo scelto di liberarci dal vincolo dell'ereditarietà. C'è poi un terzo tema. Dove vanno a finire i profitti? La Fondazione li usa per gli scopi sociali che sono connessi all'azienda».
Può fare un esempio?
«Abbiamo acquistato l'Azienda Agricola San Michele a Cortellazzo, una realtà importante dove un tempo lavoravano 400 persone. Quando siamo entrati contava un operatore part time e oggi è un'azienda biodinamica dove lavorano trenta giovani. Abbiamo dato vita inoltre a una vera e propria scuola, la Libera Scuola Steiner Waldorf "Novalis" a San Vendemiano, vicino a Conegliano che va dall'asilo alle superiori e che è la prima scuola in Italia a rilasciare un diploma riconosciuto dallo Stato in agricoltura biologica e biodinamica».
Dunque sarà la Fondazione a designare chi guiderà il gruppo in futuro?
«Oggi le aziende o vanno in mano ai figli oppure vengono vendute ai fondi di private equity che hanno ovviamente l'obiettivo di valorizzare l'investimento. Come fondazione cercheremo di fare in modo che l'azienda possa appartenere a sé stessa e alla propria missione e sia guidata con competenza e con i medesimi principi e valori che l'hanno sempre ispirata».
E a proposito di investimenti, l'anno scorso avete lanciato un prestito obbligazionario di cinque milioni di euro remunerato in buoni spesa. Con quale obiettivo?
«Creare consapevolezza, fare in modo che le persone comincino a comprendere che il cibo non è scontato e che ha bisogno di un lungo processo, frutto di una comunità di lavoro a cui io come persona posso partecipare. E quindi la consapevolezza è il vero obbiettivo dell'operazione. Abbiamo raccolto per ora circa un milione di euro per finanziare le aziende agricole e a chi ha investito gli interessi sono riconosciuti in spesa, in cibo. L'agricoltura per sua natura ha bisogno di investimenti di medio-lungo termine quindi il denaro deve essere anticipato per permettere la produzione, quindi il raccolto».
Tra inflazione, aumento dei costi dell'energia, guerra in Ucraina nei mesi scorsi i prezzi sono saliti. Quelli bio erano in partenza già più alti di quelli di largo consumo. È possibile evitare che l'esperienza del mangiar sano sia riservata solo a una minoranza?
«Mi rendo conto che possiamo sempre fare di più per rendere più accessibili i nostri prodotti, almeno quelli essenziali per l'alimentazione, ma questo non deve significare una riduzione della qualità del cibo che offriamo. Su questo punto non possiamo mediare. Così come non possiamo mediare sul tema del giusto prezzo da pagare agli agricoltori. Dove viene pagato poco l'agricoltore prospera lo sfruttamento, non solo del lavoratore ma anche della terra e del suolo. Dobbiamo fare la nostra parte, ma è anche vero che continuare a pagare troppo poco il cibo è un'aberrazione del mercato che non mostra la natura delle cose, ovvero che un'agricoltura sana e un cibo sano hanno dei benefici dal punto di vista della salute, sociale ed economico».
Quali sono i progetti per l'immediato futuro?
«Da una parte cercheremo di legarci sempre di più all'agricoltura. Dall'altra rafforzeremo il rapporto con il consumatore perché alla fine è sempre lui ad avere il pallino in mano. Bisogna renderlo consapevole che può far parte del cambiamento verso un futuro in cui il cibo sano non sarà più un privilegio, ma un elemento essenziale di tutti». —
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