Volpin: «Caro energia, azione sull’idroelettrico per tagliare i costi»

L’esperto, già in McKinsey e docente alla Sda Bocconi, è nel Cda di Singapore Power Group. «In Italia il problema principale è l’alta dipendenza dal gas metano per la produzione elettrica»

Giorgio Barbieri

«In Italia il problema principale è la composizione del mix energetico, non le regole del mercato. E un primo intervento possibile riguarda l’energia idroelettrica». Ne è convinto Antonio Volpin, per tre decenni in McKinsey dove è stato responsabile della practice Energy – Electric Power fino al 2022 e oggi, oltre a insegnare alla Sda Bocconi, è componente del Cda di Singapore Power Group, una delle più importanti aziende di energia elettrica in Asia.

Perché oggi l’energia costa così tanto alle imprese italiane rispetto al resto d’Europa?

«Ci sono motivi sia contingenti che strutturali. Il principale fattore è l’elevata dipendenza dell’Italia dal gas metano per produrre elettricità. Mentre in altri Paesi come Spagna e Francia le fonti rinnovabili o il nucleare sono più diffuse, in Italia più del 50% dell’energia elettrica è ancora generata da impianti a gas. Il gas è da tempo la fonte più cara e chi vi fa ancora troppo affidamento paga il prezzo più alto, specie dopo l’invasione russa dell’Ucraina, che ha portato a un’impennata dei prezzi».

Si parla spesso del cosiddetto “sistema del marginal pricing”. Ci può spiegare di cosa si tratta e perché penalizza l’Italia?

«Il sistema marginale stabilisce che il prezzo all’ingrosso dell’elettricità sia determinato dalla fonte più costosa utilizzata per produrla in quel momento. In Italia, dove il gas è la fonte prevalente, questo meccanismo fa sì che anche l’energia più economica – come quella idroelettrica o solare – venga venduta al prezzo del gas. Il risultato è che anche se le rinnovabili sono aumentate, i benefici non arrivano ai consumatori finché il gas resta l’ultima tecnologia marginale. È un sistema pensato negli anni ’80, oggi totalmente obsoleto».

Le imprese chiedono infatti il disaccoppiamento. Perché non si cambia questo sistema?

«Perché richiede una modifica della regolamentazione a livello europeo. E qui entrano in gioco burocrazia, lentezza istituzionale, ma anche resistenze ideologiche. Nel frattempo, chi ha puntato prima sulle rinnovabili, come la Spagna, oggi gode di prezzi bassi nonostante adotti lo stesso meccanismo».

Cosa si potrebbe fare subito per abbassare i costi?

«Un primo intervento possibile riguarda l’energia idroelettrica. Gli impianti, spesso costruiti decenni fa, forniscono energia a costi molto bassi, ma oggi viene comunque pagata al prezzo del gas. Le concessioni per la gestione di questi impianti stanno scadendo: è l’occasione per rivedere il sistema e rinegoziare i contratti secondo il costo reale, molto inferiore. L’idroelettrico rappresenta circa il 20% della produzione nazionale: pagarlo la metà significherebbe un risparmio significativo per tutti. Lo stesso vale per l’energia importata tramite elettrodotti, in gran parte di origine nucleare francese, che potrebbe essere oggetto di contratti a lungo termine a prezzo fisso».

C’è chi denuncia possibili dinamiche speculative nel mercato dell’energia. Cosa ne pensa?

«Guardando i bilanci, tutte le grandi aziende energetiche italiane stanno registrando profitti record. Visti i prezzi alti, è lecito chiedersi: non è che dipenda da posizioni dominanti? Questo non significa necessariamente che ci siano abusi, ma forse delle distorsioni. In una situazione analoga una decina d’anni fa, il Regno Unito avviò un’indagine che portò all’introduzione di un tetto ai prezzi per proteggere i consumatori».

Guardando all’estero, quali lezioni potremmo trarre?

«Oltre al caso britannico, va notato che in Italia il settore energetico è fortemente controllato dal pubblico, più di qualunque altro Paese europeo. Eppure abbiamo i prezzi più alti. Questo potrebbe aver creato una dinamica rischiosa: quando le istituzioni devono prendere decisioni, si rivolgono ai manager delle partecipate, che spesso puntano a tutelare i margini piuttosto che ridurre i costi per i cittadini».

E il nucleare è un’opzione percorribile?

«Nel lungo periodo, forse. Ma oggi è una distrazione. Anche ipotizzando scenari ottimistici, una prima centrale nucleare operativa richiederebbe almeno vent’anni. I cosiddetti “mini-reattori modulari” sono ancora a livello sperimentale: non esiste alcun progetto approvato in Europa. Parlare di nucleare ora serve più a rinviare le soluzioni che ad affrontare i problemi. Altri Paesi, come la Repubblica Ceca o il Regno Unito, hanno avviato gare pubbliche e trasparenti. L’Italia, invece, ha creato una società con Enel, Ansaldo e Leonardo che non hanno competenze nel nucleare. È difficile credere che questo porti a qualcosa di concreto».

Qual è il ruolo della finanza privata nella transizione energetica?

«Fondamentale. La finanza privata è il vero motore della transizione, ma per attrarla servono regole chiare, tempi certi e mercati trasparenti. In questo momento, il principale ostacolo non è il mercato, ma la lentezza delle istituzioni». —

Riproduzione riservata © il Nord Est