Industria Agroalimentare: i Top 100 del Nordest valgono 16,6 miliardi

In edicola domani, martedì 25 giugno con i quotidiani veneti e friul-giuliani del Gruppo Gedi, la classifica e l’analisi dei bilanci dei best in class nel food&beverage triveneto, in collaborazione con PwC

PADOVA. I Top 100 dell’industria alimentare saranno i protagonisti del nuovo numero del mensile Nordest Economia, in edicola il 25 giugno con i nostri giornali. Un numero speciale dedicato all’analisi delle 100 maggiori imprese di Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige nel comparto del food in senso lato elaborata in collaborazione con PwC. In questo contesto generale il numero non mancherà di analizzare le storie di chi nel territorio nordestino ha saputo manifestare la sua leadership.

I Top 100 dell’alimentare esprimono un fatturato totale di 16,6 miliardi di euro in crescita del 6,6% nell’87% dei casi. Il 73% delle Top 100 sono società di capitali a controllo italiano, 12% a controllo estero e 15% cooperative. A livello di comparti la leadership per fatturato è delle aziende produttrici di carne, con un volume d’affari di 4 miliardi nel 2017 (più 6,6% circa rispetto al 2016). Secondo settore per fatturato sono i vini e spumanti, con 32 aziende per un volume d’affari di 2,9 miliardi (più 8,4% vs 2016) e un rapporto Ebitda/ricavi medio di settore dell’8,5%. Seguono i produttori di mangimi e di caffè, con un fatturato di 1,7 e 1,5 miliardi.

Le sfide per le aziende del Nordest, nel Food&Beverage si legge nell’analisi di Erika Andreetta di PwC sono «Internazionalizzazione, lo sviluppo di nuovi prodotti e l’interpretazione delle nuove tendenze salutistiche e di sostenibilità». Nonostante il buon andamento della maggioranza assoluta dei gruppi, l’apertura internazionale delle nostre produzioni ha ampi margini di crescita.

Secondo l’Ocse il valore complessivo della produzione di beni alimentari e bevande in Italia si attesta sui 150 miliardi di dollari, inferiore a quello di Spagna (160), Francia (170) e Germania (200). Il confronto peggiora se guardiamo all’export (24 miliardi), dove siamo quasi doppiati dalla Germania (46) e superati oltre che da Spagna e Francia anche da Irlanda e Olanda.

«L’Italia – scrive Giancarlo Corò nella sua analisi iniziale - è storicamente carente di materie prime agricole, forestali e della pesca. Su questo fronte il deficit commerciale si aggira sui 10 miliardi di dollari, cinque volte superiore al surplus ottenuto nell’industria alimentare e bevande. Perciò, nonostante la retorica italiana sui mille prodotti tipici e le innumerevoli iniziative di tutela e valorizzazione delle denominazioni di origine, la bilancia commerciale del settore agro-alimentare segna rosso».

L’industria agro-alimentare italiana sottolinea dunque Corò «vive uno strano paradosso». Da un lato è una delle attività economiche più dinamiche e innovative, cresciuta grazie a una reputazione internazionale rilanciata da iniziative come l’Expo di Milano e prima ancora dal movimento Slow Food, che hanno contribuito a identificare l’Italia come patria elettiva del buon cibo e delle varietà eno-gastronomiche. Dall’altro «sembra tuttavia prigioniera di un modello produttivo dove i valori della “tradizione” e delle “tipicità locali” rischiano di trasformarsi in rendite di posizione che limitano un’organizzazione più industriale della produzione e l’espansione sui mercati globali».

Secondo Istat il Nordest fattura all’estero oltre 8 miliardi di euro e in base alle analisi di Federalimentare il Veneto da solo pesa sull’export italiano il 16,98%. Con 5,8 miliardi di export il Veneto è fra le quattro regioni con le quote export in assoluto più elevate, dopo la Lombardia (6,1 miliardi). Ma le nostre produzioni non riescono a macinare risultati all’altezza delle loro qualità. Basti pensare che l’Italian sounding (ovvero la copia delle nostre produzioni tipiche) è stimato in 60 miliardi di euro. Secondo il presidente di Federalimentare Ivan Vacondio, raggiunge addirittura la cifra record di 90 miliardi di euro. Per combattere questo fenomeno è necessaria dice l’imprenditore «un'innovazione tecnologica con la quale costruire una distribuzione capillare: se i prodotti Made in Italy raggiungono luoghi in tutto il mondo scalzano con la qualità la concorrenza sleale». —

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