«Negli Usa senza sapere l’inglese Per lui parlavano i suoi occhiali»

Giuliano Balestreri

Sono frastornato, sono senza parole. La perdita di Leonardo Del Vecchio è qualcosa di enorme. Faccio fatica anche solo a spiegare cosa abbia rappresentato per me». A Luxottica e a Leonardo Del Vecchio è legata in maniera indissolubile anche la storia di Andrea Guerra, il manager che appena 39enne – nel 2004 – fu chiamato a raddrizzarne la rotta. Allora sembrava una scommessa, oggi sarebbe quasi impossibile perché «il rischio di rifiuto del mercato, ma anche dello stesso Del Vecchio era altissimo» racconta il manager, invece l’imprenditore aveva le idee chiare: dopo aver perso la licenza di Armani cercava chi dedicasse anima e corpo alla sua creatura.

Al vertice di Luxottica, Guerra è rimasto per 10 anni: abbastanza perché il titolo della società passasse da 15 a 40 euro, i ricavi da 3,2 a oltre 7,6 miliardi di euro, l’utile netto da 286 a 646 milioni di euro. Un matrimonio di successo senza il quale Guerra – probabilmente – non sarebbe diventato consulente di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, presidente esecutivo di Eataly e amministratore di Lvmh Hospitality Excellence carica che ha appena lasciato pur rimanendo come senior advisor del gruppo di Bernard Arnault. Ma senza Guerra anche Luxottica non sarebbe cresciuta così tanto da potersi fondere con Essilor in una posizione di forza.

E così la separazione tra Guerra e Luxottica, per quanto dolorosa, è stata «elegante» come la definì Del Vecchio. Un addio consumato sulla divergenza di vedute tra proprietà e management, «ma io non smetterò mai di dire grazie. È stata la mia storia più importante, grazie a Del Vecchio».

Qual è il suo primo ricordo di Leonardo Del Vecchio?

«Tutto è iniziato con una telefonata. Era l’ultima cosa che mi sarei aspettato. Me la ricordo perfettamente, cercavano un nuovo amministratore delegato per Luxottica e mi chiamò direttamente lui. Di solito sono gli head hunters a muoversi per primi, invece fece tutto Del Vecchio. Mi chiese se potessimo incontrarci e rispondendo sì immaginavo che mi avrebbe fissato un appuntamento a distanza di settimane. Mi spiazzò chiedendomi se fossi libero per pranzo il giorno dopo. Mangiammo insieme due volte e alla fine del secondo incontro lavoravamo già insieme. Del Vecchio era l’espressione massima dell’arte della semplificazione».

Che cosa intende?

«Spesso è una parola abusata, ma lui aveva una capacità straordinaria di andare al nocciolo della questione. Non amava perdere tempo in inutili preamboli. E questo, secondo me, rappresenta l’essenza del suo modo di essere».

Cosa rendeva speciale, un imprenditore come Del Vecchio?

«Lui aveva da sempre questa voglia incredibile di diventare il più bravo in quello che faceva. Innovazione e qualità al giusto prezzo era il suo mantra. Tutto il resto era accessorio».

Con un azionista così esigente la convivenza non sarà sempre stata semplice.

«Era ossessivo, nel senso migliore del termine. Non c’era momento che le cose importanti non fossero al centro di tutto. Ma è una caratteristica che hanno i grandi imprenditori. Il mio rapporto con lui è stato abbastanza particolare: siamo stati insieme dei mesi e poi ho avuta molta libertà anche perché quello era un passaggio della sua vita in cui era un po’ stanco».

Perché allora è finita?

«Le storie iniziano e finiscono, magari c’è stata qualche incomprensione, ma alla fine non sono queste le cose che contano. Tutti ci abbiamo messo un pezzo di cuore e di intelligenza. Di certo non ho mai avuto dubbi sull’accettare l’offerta di Del Vecchio, un imprenditore che ha lavorato ogni giorno per essere il più bravo».

Cosa resterà di Del Vecchio?

«In Italia c’è il rischio di essere personalizzati. Ci sono imprenditori che temono che si parli più dell’azienda che di loro, lui, invece, ha sempre investito in Luxottica. E quando ha capito che doveva aprirsi al mondo lo ha fatto quotandosi negli Stati Uniti, sul mercato più grande del mondo. Lo ha fatto senza parlare inglese, perché i suoi occhiali parlavano per lui». —

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