Le pelli inglesi per la concia del vicentino e il rischio Brexit

VICENZA. Finco 1865, la più longeva conceria italiana familiare, ha sede a Bassano del Grappa, utilizza pelli bovine britanniche e opera in Inghilterra per la prima fase di lavorazione. I Finco sono conciatori da generazioni, con il primo laboratorio fondato sull’Altopiano di Asiago nel 1865.
Oggi l’azienda fattura 50 milioni di euro nella fascia medio-alta di arredamento, pelletteria, calzatura, automotive after market, nautica e aerei. L’export vale il 90%, soprattutto Stati Uniti, Canada, Germania, Cina, India, Thailandia, Vietnam. L’approvvigionamento di pelli grezze con il primo trattamento fino alla stabilizzazione avviene da molti anni in Inghilterra, paese con importanti allevamenti bovini.
“Siamo comproprietari al 50% con una famiglia anglo-irlandese della HH (Processors) Ltd nella città di Hull”. Il 31 dicembre il Regno Unito uscirà definitivamente dall’unione doganale e dal mercato unico europei. E già si percepiscono problemi con il trasporto delle merci.
“Per evitare il collo di bottiglia attraverso il Tunnel della Manica abbiamo spostato su traghetto verso il Belgio il trasporto delle pelli semilavorate”, dice il presidente Bernardo Finco. Che si dice comunque ottimista sugli sviluppi dei negoziati Brexit, in particolar modo in materia di importazione di pelli grezze e semilavorate. “Europa e Italia non sono autosufficienti in questo settore. Applicare tariffe doganali su prodotti per i quali non c’è prospettiva di sviluppare una produzione interna non avrebbero senso”.
Finco è fiducioso anche più in generale. “Irrigidimenti controproducenti non avrebbero senso. Certamente gli inglesi hanno una vocazione mercantilistica molto pragmatica, mentre l’Europa teme che Londra sia completamente libera di fare leggi che avvantaggino le sue imprese rispetto a quelle europee vincolate da una legislazione iper-regolante. Ma in una logica di apertura al libero mercato a cui l’Unione Europea ha sempre detto di ispirarsi, si dovrebbe evitare un regime di dazi e di complicazioni burocratiche”.
L’idea che nel post Brexit 2021 si troverà comunque un accordo per le relazioni commerciali non è solo un wishful thinking di imprenditori come Finco molto implicati con la Gran Bretagna. È diffusa anche tra gli osservatori indipendenti. Per esempio Pepjin Bergsen del centro studi Chatham House si aspetta per l’anno prossimo “un processo negoziale pressoché costante” tra le due parti.
In ambito business la controversia principale riguarda il level playing field, cioè la normativa nazionale in materia di standard che il Regno Unito potrebbe abbassare per attrarre investimenti stranieri e fare concorrenza sleale all’Unione Europea. All’inizio “il commercio sarà più difficile” spiega il professor Anand Menon, direttore dell’iniziativa di ricerca indipendente UK in a Changing Europe.
Con ricadute negative sull’interscambio. C’è per esempio una lista del governo britannico di 500 prodotti europei che potrebbero essere colpiti da dazi. Secondo un’analisi di Bloomberg di alcuni mesi fa, su un valore di 301,2 miliardi di euro di export europeo verso il Regno Unito, circa il 16% pari a 47,3 miliardi sarebbero gravati da costi aggiuntivi di quasi 5 miliardi. L’automotive il più colpito, e poi tessile e abbigliamento, carni, latticini, ceramiche, zucchero, pneumatici e ruote, beni casalinghi, cacao, grassi e oli, fertilizzanti. Per l’Italia l’export interessato da dazi secondo lo studio sarebbe di 2 miliardi.
E per il Nordest? Il Veneto ha per esempio con il Regno Unito un interscambio medio annuale (pre Covid) di 4,4 miliardi di euro, con bilancia commerciale molto positiva grazie a 3,6 miliardi di export (media 2017-2018-2019, dati Istat). I settori top sono bevande (media pre-Covid di 475 milioni di euro), macchine di impiego generale (313 milioni), abbigliamento (264 milioni), arredamento (250 milioni), forniture medico-dentistiche (235 milioni), alimentare (210 milioni), macchine speciali (181 milioni), calzature (184 milioni).
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