Il ministro Martina: "Per vincere all'estero occorre più stato"

I nodi promozione e politica agricola nazionale: "Da federalista convinto dico che servirebbe avere più strumenti di gestione validi per tutti i territori"

Un vino preferito? «Due bianchi e uno rosso. Le etichette potrò rivelarle solo dopo che avrò finito di fare questo mestiere». Maurizio Martina, ministro alle Politiche agricole, i suoi gusti non li racconta e però ha idee molto chiare in materia, perché da sempre la studia (fin da quando si è diplomato all’istituto tecnico agrario di Bergamo, e poi da responsabile Agricoltura nel Pd e da sottosegretario nel governo Letta). E difatti le risposte non sono reticenti o generiche, dinanzi al sistema vino italiano. Che sta conoscendo un’affermazione senza precedenti su scala mondiale, pur restando aperte tante questioni che chiamano in causa la politica e le politiche industriali. «I punti critici», dice Martina, «stanno tutti sull’asse classico dell’organizzazione e del valore. Da una parte serve la capacità di essere sempre più globali, con reti distributive su tutti i mercati. E dall’altra la necessità di vendere a valori più congrui, più coerenti con gli sforzi imprenditoriali e con la qualità del vino italiano. Un punto di forza è la capacità di essere glocal, ossia rappresentativo delle peculiarità del Paese e al tempo stesso internazionale in tutto e per tutto. Non esiste veicolo più forte del vino per stare sulla scena mondiale e la Francia non ha tutte le nostre sfumature».
Una debolezza di fondo consiste nelle dimensioni aziendali: sono censiti 70 mila trasformatori e 25mila imbottigliatori.
«L’aggregazione è sempre positiva, ma va detto che il sistema vino è tra i più solidi nel contesto agroalimentare. Parliamo di 14 miliardi di euro di fatturato e un’alta vocazione all’export. Ha saputo sfruttare bene gli strumenti europei della Ocm e qualificarsi sempre di più, pur in presenza di alta frammentazione della produzione. È un modello che vorremmo anche per affrontare la crisi del latte».
Detto che il marchio Doc è stato uno degli strumenti di affermazione e selezione, le 420-430 etichette oggi esistenti non sono eccessive? Sono una decina quelle che hanno volumi e prestigio internazionali.
«Le denominazioni rappresentano il collegamento tra qualità e territorio, che esprime la forza dell’Italia. In tutte le Regioni ci sono eccellenze vinicole. Ora la sfida è dare valore anche a quelle minori. Vale anche per i cibi Dop e Igp. Servono managerialità e aggregazione».
I critici contestano che i criteri di individuazione di una Doc si sono ridotte in modo rischioso “quasi” solo alla comunanza del vitigno, perdendo di vista l’uniformità del contesto pedo-climatico.
«Porrei una domanda al contrario: il Pinot grigio delle Venezie ha una connotazione che lo rende qualitativamente differente dai Pinot grigio di altri territori? Certamente sì, come dimostra il successo di questo vino nel mondo. È un patrimonio che va protetto e promosso. La nuova Doc darà una mano importante ai produttori».
Le singole zone Doc non sono troppo piccole e dunque incapaci di una produzione sufficiente all’affermazione su scala internazionale?
«La Doc esprime anche identità e va detto che non tutte hanno vocazione internazionale, ma possono comunque trovare sbocchi locali o nazionali. I produttori italiani hanno imparato sempre di più ad orientare le loro produzioni alle esigenze del mercato».
La questione della frammentazione riguarda anche altri aspetti. Per esempio ritiene che sarebbe bene che il vino divenisse un autentico patrimonio nazionale e che la promozione e la gestione delle politiche economiche fossero in capo allo Stato e non più alle Regioni?
«Non si tratta solo di promozione, ma di politica agricola nazionale. Da federalista convinto, dico che servirebbe avere più strumenti di gestione validi per tutti i territori. La promozione è un esempio classico: il made in Italy è un brand forte e riconosciuto dai consumatori, quelli regionali meno. Perciò stiamo lavorando in maniera coordinata per portare all’estero il sistema Italia unito».
I vini italiani sono presenti davvero solo in cinque mercati (Germania, Usa, UK, Canada e Svizzera). Ma per esempio in Cina pesiamo un decimo rispetto alla Francia. Come superare questo gap?
«Investendo su formazione e distribuzione, con chiavi innovative. Siamo reduci dal successo della giornata del vino su Alibaba, la più importante piattaforma e-commerce cinese. 100 milioni di cinesi hanno acquistato vino e quelli italiani sono andati quasi tutti sold out. L’Italia è stata protagonista assoluta, ora vogliamo continuare. In Cina vogliamo raddoppiare le esportazioni del vino entro il 2018, portandole a 200 milioni».
Vendiamo oltre mezzo miliardo di bottiglie di Prosecco, a un prezzo medio di 3,5 euro al litro. Lo Champagne e gli altri spumanti francesi hanno volumi inferiori e prezzi superiori del 20-30%.
«Il Prosecco è uno dei più grandi successi mondiali a livello enologico. Fa storia a sé e trovo improprio il paragone con lo Champagne. Sono due categorie diverse e nella sua categoria il Prosecco ha ancora margini per consolidare la leadership internazionale».
Lo scorso anno il valore dell’export è salito a 5,4 miliardi, ma il vino liscio è calato e le bollicine ancora cresciute. Non avverte il rischio che il fenomeno Prosecco possa passare di moda?
«Investire sulla formazione dei consumatori significa mettersi al riparo dal discorso moda. Allo stesso tempo non bisogna inflazionare il prodotto, continuare a lavorare sulla qualità e combattere le frodi. Su Alibaba abbiamo bloccato 13 milioni di bottiglie di falso Prosecco in un mese. In Inghilterra il nostro Ispettorato ha fermato il Prosecco in lattina e quello alla spina. Non abbassiamo la guardia».
Il Testo unico è in fase di approvazione. Un lavoro enorme di riunificazione e sintesi, riferimento per almeno le due prossime generazioni.
«È stato fatto un grande lavoro per il futuro del vino: 89 articoli al posto di tante leggi. Mi auguro che entro l’autunno la Camera lo approvi. Dalla sua presentazione sono passati circa 400 giorni, con la riforma costituzionale dopo il sì della Camera sarebbe legge, invece ora dovrà passare al Senato. È un esempio di quanto la riforma sia necessaria per rendere l'Italia più veloce, capace di rispondere tempestivamente alle esigenze di cittadini e imprese».
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