Il capitalismo apripista del Nordest alla prova più difficile

Quando lo scorso febbraio questo giornale stava preparando la pubblicazione dello speciale dedicato alle maggiori imprese del Nord Est, i dati di bilancio mostravano un sistema in buona salute.
Negli ultimi esercizi la crescita del fatturato era stata costante, risentendo in modo limitato del rallentamento che da almeno due anni stava invece soffrendo l’economia italiana. Anche se i margini operativi mostravano nel complesso una limatura al ribasso, si trattava in realtà di un risultato influenzato da alcune e ben identificabili situazioni critiche, tolte le quali la redditività dell’insieme delle imprese maggiori del Nord Est continuava crescere a un passo più che doppio rispetto al resto dell’economia. Il pericolo che allora si poteva paventare era, paradossalmente, l’interesse della finanza internazionale a rilevare asset produttivi con ottimi rendimenti, dato che in un terzo delle Top100 il Roe superava il 15%.
Oggi, nel mezzo della seconda ondata della pandemia da Coronavirus, lo scenario è radicalmente cambiato. E la preoccupazione è semmai come il gruppo di testa del capitalismo del Nord Est riuscirà a reggere l’urto della più grave, estesa e profonda crisi che l’economia abbia mai attraversato dopo la seconda guerra mondiale.
Una crisi che colpisce in modo asimmetrico i diversi settori, e che si è accanita in particolare su alcuni tradizionali punti di forza dell’economia del Nord Est: la filiera turistica in primis, ma anche moda, arredo-ufficio, meccanica strumentale, componentistica automotive. Una crisi che colpisce soprattutto le imprese esportatrici e collegate a catene globali di fornitura, costrette a ridefinire in poco tempo un’organizzazione industriale molto efficiente in base ai parametri pre-Covid, ma che ha mostrato le sue fragilità di fronte alla brusca frenata dei collegamenti internazionali causata della pandemia.
Si deve in realtà riconoscere che il gruppo di imprese leader del Nord Est è arrivato a questa crisi in buone condizioni economiche, tecnologiche e finanziarie. Non era così nel 2008, quando la crisi finanziaria era precipitata su un sistema industriale molto più indebitato di adesso, aggravando quelle sofferenze che hanno poi contribuito al crollo delle banche popolari venete.
Le migliori condizioni strutturali in cui oggi si trovano le imprese leader del Nord Est forniscono loro risorse per assorbire meglio i colpi della crisi e prepararsi a cogliere il rimbalzo dei mercati che già dovremmo vedere nel 2021. La nota di aggiornamento al DEF prevede un tasso di crescita media annua dell’economia italiana superiore al 4% fino al 2023, per poi rimanere vicino al 2%.
Le imprese che supereranno lo scoglio di questa crisi, avranno dunque davanti molte opportunità da cogliere sia nel mercato interno, sia in quelli esteri. Dovrebbe tuttavia essere chiaro che per competere nello scenario post-Covid nemmeno le imprese maggiori possono accontentarsi di passare la nottata, contando magari di aggrapparsi ai sussidi pubblici che tanto generosamente vengono oggi promessi dallo Stato. Dovranno invece completare la transizione verso un nuovo capitalismo della conoscenza, nel quale sarà centrale un uso più trasversale, consapevole e produttivo delle tecnologie digitali, ma anche il rispetto dei valori di sostenibilità e inclusione sociale.
Ciò vale in particolare per imprese per definizione globali, che non solo esportano una parte consistente dei propri prodotti, ma che da tempo hanno sviluppato all’estero filiali produttive ed estese reti di fornitura. Sarà proprio grazie a questa organizzazione multinazionale che le Top100 potranno riprendere prima e più rapidamente il percorso di crescita nonostante le perduranti difficoltà nelle relazioni trans-frontaliere. Dobbiamo del resto essere consapevoli che una volta che la pandemia sarà superata, l’economia globale non tornerà affatto la stessa di prima.
Negli ultimi anni il commercio globale aveva infatti rallentato anche a causa di politiche protezionistiche che in modo più o meno esplicito cercavano di privilegiare le produzioni nazionali a scapito degli scambi con l’estero. Anche se l’impatto reale di queste politiche è più controverso di quanto si è soliti pensare – non è infatti dimostrato che la sostituzione delle importazioni con produzioni nazionali tuteli nel lungo periodo l’occupazione locale, soprattutto quella qualificata, mentre è certo penalizzi i consumatori e le imprese posizionate a valle delle catene del valore – è tuttavia indubbio che la pandemia ha portato all’estremo questa tendenza, di cui si dovrà dunque tenere conto anche in futuro.
Per un’economia come il Nord Est che conta più di 30mila imprese esportatrici e in cui le vendite all’estero incidono per il 40% del Pil, non si tratta di una buona notizia. Ecco allora che l’infrastruttura globale sviluppata dalle imprese leader di quest’area potrà costituire un fondamentale canale di accesso ai mercati esteri.
Per raggiungere tali mercati, in particolare quelli extra-europei, sarà infatti sempre più importante creare presidi produttivi e distributivi all’estero, partnership internazionali e joint venture con produttori locali. Allo stesso tempo diventa indispensabile impiegare in modo appropriato le tecnologie digitali di ultima generazione quali Big data, AI, IoT, realtà virtuale, manifattura additiva, robotica integrata. Il che richiede investimenti in capitale umano, qualificate reti di fornitura, accesso a servizi avanzati.
Alcune imprese che troviamo nella graduatoria Top100 hanno già effettuato questo salto tecnologico e nei modelli di business. Non è così per molte PMI, che troveranno sempre più difficile arrivare ai consumatori mondiali attraverso i tradizionali canali dell’export. Perciò, il successo competitivo delle imprese leader non si misurerà solo sui propri indicatori di bilancio, ma anche sulla capacità di accompagnare una più ampia platea di attori – lavoratori, fornitori, istituzioni locali – nei loro percorsi di innovazione.
Investire sul capitale territoriale sarà dunque per le imprese leader un’importante assicurazione sulla continuità dello sviluppo, perciò alla lunga sulla loro stessa redditività. Fino a qualche tempo fa il capitale territoriale era per lo più visto come un insieme di infrastrutture per ridurre i costi di accesso ai mercati. Poi si è capito che riguardava anche asset intangibili come capitale umano, competenze produttive, creatività.
Oggi l’emergenza sanitaria sta mostrando che un’impresa – per quanto grande e globale – non può crescere se attorno a sé non si sviluppa anche un efficiente sistema di welfare, nonché una comunità coesa, nella quale la competizione non sacrifichi il senso civico, lo spirito collaborativo, il sentimento di appartenenza a un destino comune. Questa nuova responsabilità sociale dell’impresa non può limitarsi a una petizione di principio, ma richiede un cambio di strategie di investimento, nonché nuovi e più aperti modelli di governance. Richiede, perciò, un’evoluzione culturale che la drammatica prova che stiamo affrontando ha reso tanto evidente, quanto urgente.
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