Costa: "La via per crescere è la multi-localizzazione"

«Il cambio fluttua per definizione, e le quotazioni delle materie prime, petrolio in primis, non sono destinate a restare basse all’infinito. Ecco perché quando si parla di export dobbiamo distinguere fra quella che è la situazione congiunturale, con tutta la volatilità e le fragilità del caso, e lo scenario strategico di lungo termine nel quale le nostre imprese dovranno giocoforza competere. Ebbene, alla lunga non avranno successo le imprese che semplicemente venderanno all’estero una quota rilevante della propria produzione. Ma quelle che riusciranno a costruire una consolidata presenza estera, differenziandola per area geografica e per tipo di clientela». Nei ragionamenti di Giovanni Costa, vicepresidente del Consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo, appare inestricabile la parte di ragionamento che scaturisce dalla professione di banchiere, da quella derivante dall’essere professore emerito di Strategia d’impresa all’università di Padova.
Professore, vuol dire che nell’exploit nordestino delle esportazioni non sono tutte rose e fiori?
«Capiamoci, l’export è importante e per fortuna che c’è, ci mancherebbe. Facciamo bene a rallegrarcene, perché il Nordest ne trae benessere e occupazione. Però dobbiamo capire i limiti di questa situazione, perché un’economia che si basi solo sulla vendita all’estero di merci non può andare lontano. In primo luogo un Paese non può reggersi solo su questa voce, ma ha bisogno anche dei consumi interni. In secondo luogo alla lunga l’export è molto influenzato da cambi e costo delle materie prime, che in questo periodo sono favorevoli alle aziende che vendono all’estero, ma domani chissà. Infine c’è un altro aspetto. Anche le piccole aziende esportano, ma sono estremamente specializzate per area geografica e per clientela: basta una variazione nell’uno e nell’altro ambito, ad esempio la débacle del mercato russo e l’impossibilità di sostituirlo con quello cinese, e la piccola azienda va in crisi».
In concreto le imprese del Nordest come dovrebbero rapportarsi con questo scenario?
«L’economia è globalizzata, le nostre aziende debbono essere essere multi-localizzate: non bisogna badare solo al flusso delle merci, ma soprattutto a quello degli investimenti diretti esteri, che consentono di stare laddove ci sono i clienti finali ma anche di capire le specificità dei mercati. Senza dimenticare che così si riesce a vendere il prodotto ma anche il servizio, e questo dà un vantaggio competitivo sul medio-lungo periodo. Insomma la domanda cruciale è se le nostre aziende siano davvero internazionalizzate oppure no».
E la risposta qual è?
«Sicuramente abbiamo aziende che sono presenti in Italia ma hanno investito adeguatamente anche all’estero. E sono queste aziende il modello da seguire e rafforzare. Invece sento ancora parlare di delocalizzazione, che è un modo vecchio di porre la questione. Quando De’ Longhi, ormai tanti anni fa, aprì il suo stabilimento in Cina, fu messo in croce persino dalle autorità religiose: il vescovo di Vittorio Veneto ne scrisse in termini poco lusinghieri. Ma se De’ Longhi oggi non fosse in Cina, non avrebbe neppure i posti di lavoro, comunque di elevata qualità, che conserva a Treviso. L’esempio più clamoroso, però, è Luxottica: a livello globale ha 79 mila addetti, in Italia 9 mila e ad Agordo 4 mila. Allora diremmo che Luxottica ha semplicemente delocalizzato? Nient’affatto, l’interpretazione giusta è che il gruppo di Del Vecchio ha capito il valore del retail e si è quindi multilocalizzata. Del resto la produzione italiana di occhiali vale 3,5 miliardi, Luxottica da sola ne fattura nove. Insomma senza quei 70 mila addetti all’estero, non ci sarebbero neppure i 9 mila dipendenti in Italia. Ma di esempi che vanno nella stessa direzione ce ne sono vari: Rana, ad esempio, che ha investito in uno stabilimento negli Stati Uniti, come anche la padovana Sirmax».
Questo per dire che esistono resistenze anche culturali rispetto alla presenza estera delle nostre aziende?
«Sì, perché parlare di delocalizzazione pone la questione sotto una luce sbagliata, vecchia. Anche sotto il profilo semantico. Qui il tema è internazionalizzarsi. E quindi essere multi-localizzati. La Germania esporta più dell’Italia nel settore dell’agroalimentare, dove noi abbiamo numerose eccellenze. Avviene perché ha le aziende della grande distribuzione in grado di portare i prodotti tedeschi in tutto il mondo. Noi invece non ne abbiamo».
Lei è vicepresidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo. Questa impostazione come si traduce nell’azione della banca?
«Noi dobbiamo accompagnare le aziende in questa crescita culturale e operativa. Il denaro è sempre più una commodity, tanta è la liquidità disponibile, i tassi sono bassi, i margini si sono assottigliati, la differenza la fa il servizio sottostante al denaro. Su questo restiamo molto impegnati».
Tolti i casi d’eccellenza, quale risposta trova fra la generalità delle aziende?
«Sono ottimista. I figli degli imprenditori di prima generazione, i rampolli, viaggiano, hanno fatto le scuole giuste, sanno le lingue, sono i primi protagonisti della trasformazione necessaria. E questo avviene anche fra le piccole aziende, ci sono molte start up che stanno facendo faville in giro per il mondo. Non va poi dimenticato che non si tratta più di andare in giro con la valigia di cartone, ma di assumere rischi-Paese con maggiore consapevolezza. Da parte nostra abbiamo il dovere di indicare qual è il modello, e di calibrare servizi conseguenti».
Quali sono i settori con le maggiori potenzialità di espansione all’estero?
«Ad esempio la meccanica, la biofarmaceutica, la moda. Qui però è necessario costruire marchi globali, non basta la nostra abilità manifatturiera, su cui si è fatta molta retorica. Non è pensabile che i cinesi non siano in grado di acquisire in tempi ragionevoli le stesse nostre competenze. Quello che fa di Bottega Veneta un caso di successo non sono le lavorazioni a mano, ma il brand, la capacità di raccontare una storia. Noi, Luxottica e Diesel a parte, abbiamo poche piattaforme di questo tipo. Sono campioni che devono trovare bravi emulatori»
Il sistema bancario in questi anni è stato costretto a una forte ristrutturazione. Come si traduce questo processo nei servizi alle aziende?
«Quello che è andato perso in termini di margini, per la maggiore competitività del settore e per la situazione di liquidità abbondante e di bassi tassi d’interesse, dovrà arrivare dai servizi. Quelli sull’internazionalizzazione saranno, dal punto di vista delle banche, fra i più qualificanti. Non dimentichiamo d’altro canto che il nostro settore è sottoposto a una dirompente disintermediazione, a causa dell’attività di competitor non bancari e della diffusione pervasiva delle tecnologie».
Anche nel campo della promozione all’estero la mano pubblica, specie a livello locale, appare irrilevante. Perché?
«C’è stato un deperimento naturale delle iniziative, per esempio delle società delle camere di commercio, perché nessuna di esse ha raggiunto la massa critica necessaria. Non ha senso fare la promozione del sistema Padova a Pechino. Non sento una grande nostalgia, però è vero che servirebbe una regia pubblica in grado di concentrare le risorse e di dare una direzione univoca sia a livello europeo che a livello mondiale. La questione è la capacità di intervenire con il respiro necessario».
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