Quelle corse su due ruote oltre la Cortina di ferro: l’evento a Go!2025
Domenica 31 agosto “Motociclismo senza confini” ispirato alle corse in moto ai tempi della Guerra fredda

Portorose, settembre 1963. Un giovane e ancora semisconosciuto pilota austriaco, futuro campione del mondo (postumo) di Formula Uno prende parte ad una corsa automobilistica sull’adrenalinico circuito sloveno tra roccia e mare. È Jochen Rindt. Non vince, ma conosce il triestino Gino, talento puro del motociclismo a cui chiede un favore: andare a recuperare di volata in albergo con la sua due ruote alcuni documenti che aveva scordato.
«Te la presto volentieri, così puoi andarci tu», gli dice quello. «Non posso, non la so portare», la risposta, candida e un po’ imbarazzata di Rindt. Lui sì che sapeva, invece. Altroché. Luigi “Gino” Rinaudo, pilota tra i migliori in Italia e non solo della sua generazione, protagonista di una storia nella Storia. Quella dei tanti piloti tricolori che tra gli anni Cinquanta e Settanta prendevano parte alle corse motociclistiche internazionali che si svolgevano nell’allora Jugoslavia, superando in modo spesso “creativo” una frontiera che allora esisteva eccome ma sport e passione iniziavano ad abbattere con mezzo secolo d’anticipo almeno su quel che sarebbe stato.

C’erano i migliori, eccezion fatta per il più grande di tutti, Giacomo Agostini che aveva il veto del conte Agusta per questo genere di gare. Troppi, i rischi. Gli altri? Per citarne alcuni Silvio Grassetti, Paolo Campanelli, Claudio Loigo, Gilberto Parlotti e, suo inseparabile amico, Gino Rinaudo appunto. La loro epopea verrà omaggiata dall’evento “Motociclismo senza confini” il 31 agosto a Gorizia e Nova Gorica, inserito nel programma di Go!2025 per la regia del Moto Club Trieste e il coordinamento di Stefano Zuban.

E Rinaudo, che oggi ha 87 anni ma lo spirito di quei giorni là, ci sarà. A raccontare. Delle prime trasferte oltreconfine sulla Fiat 1100 di Angelo Parlotti, papà di Gilberto, con dietro il carrello costruito nell’officina di famiglia e le moto sistemate sopra. O dei graniciari al valico della Casa Rossa, a Gorizia.
Pare vi fosse un ufficiale particolarmente sensibile al fascino dei motori, disposto a chiudere un occhio se non entrambi in cambio di memorabilia delle corse. Figurarsi l’entusiasmo per avere a che fare con quelli che, ad est della Cortina di ferro, erano considerati autentici eroi. Le ideologie si scioglievano al calore delle emozioni e dalla frontiera sulla carta impenetrabile passavano uomini ma anche motori. Bolidi a due ruote che nei paddock jugoslavi venivano ceduti, per passione ma pure guadagno, ad appassionati e sportivi locali che altrimenti mai avrebbero potuto mettere le mani su simili mezzi, al tempo.
«Proprio così – assicura Gino Rinaudo –. Le gare in Jugoslavia erano autentiche follie e purtroppo ogni fine settimana ci scappava un morto per quanto i circuiti erano pericolosi. Ma noi ci andavamo perché da piloti stranieri guadagnavamo molto di più che in Italia, e ne avevamo bisogno, e da quelle parti eravamo considerati delle star. In Bosnia, ad esempio, dove potevamo fare letteralmente ciò che volevamo. E si correva davanti a decine di migliaia di persone, qualcosa da far impallidire al tempo il pubblico di gran premi leggendari in Europa come Assen o Monza». E capitava un po’ ovunque.
A Nova Gorica (dove il circuito cittadino di una delle prime corse motociclistiche in Jugoslavia partiva dove oggi c’è il municipio) come a Sarajevo, a Banja Luka, Murska Sobota, Kamnik, Abbazia, Portorose. Ecco, proprio in riva all’Adriatico si esaltava Parlotti (ad Abbazia imbattibile o quasi), come del resto Rinaudo, in sella alla sua Ducati 125, 250 e 350. «Già, perché allora si poteva gareggiare in più categorie allo stesso tempo, e noi le facevamo tutte – racconta –. A Portorose, nel 1956, vinsi la mia prima gara internazionale, per festeggiare mi fecero bere e al momento di rientrare in Italia, alla frontiera, trovandomi ubriaco per poco non mi sbattevano in prigione. Che tempi, quelli. Le piste più belle erano anche le più pericolose, con solo balle di fieno a coprire gli ostacoli, che quando pioveva zuppe d’acqua diventavano più dure del cemento. Ad Abbazia, poi, se sbagliavi avevi da scegliere se finire sulle rocce da un lato della strada o nella scarpata e poi in mare dalla parte opposta. E noi, che eravamo degli incoscienti, quando si trattava di scegliere le tute e i guanti con cui correre, chiedevamo i più sottili possibili, per risparmiare anche pochi grammi di peso ed essere più veloci».
Eppure, ora che il polso destro ha smesso da tempo di dare gas, è un altro ricordo quello che Gino (e come lui tanti altri) conserva più forte nel cuore. «Le amicizie, anche vere e profonde, che in città che sembravano così lontane e diverse dalle nostre riuscivamo a fare», dice con la voce che s’increspa un po’. E che spiega come, quei piloti, oltre ai record in corsa iniziavano ad abbattere pure le ideologie.
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