Paolo Valerio, l’ultimo «mato» veronese a Trieste venuto dal Piccolo di Strehler
Il direttore del Rossetti esordì con la ragazza che in «Ecce bombo» vede gente e fa cose: «Questa è la città che più ama i teatri, ma non fare l’attore mi manca»


La chiacchierata con il veronese Paolo Valerio, attore, regista e impresario teatrale, comincia da un’osservazione del cronista: «Nel corso degli anni, la sua città ha dato al Friuli-Venezia Giulia un vescovo di Trieste, Renzo Bellomi; un presidente della Regione, Massimiliano Fedriga; un presidente dell’Autorità portuale, Zeno D’Agostino; un direttore del Teatro Stabile, lei. Non lo trova curioso? Come si sarà creato questo feeling fra i due poli estremi del Nordest?».
La replica non si fa attendere: «Sicuramente curioso. Ma lei sa come recita il famoso detto: “Veneziani gran signori; padovani gran dotori; vicentini magnagati; veronesi tuti mati”. Forse nella città che fu anche di Franco Basaglia abbiamo sempre trovato terreno fertile». Lo psichiatra ottenne l’incarico di direttore del manicomio di Trieste nel 1971. Giusto 30 anni dopo, proprio nel giorno in cui lui ne compiva il doppio, 60, Valerio assunse nella città giuliana l’incarico di direttore del Politeama Rossetti, il Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia. Era il 1° gennaio 2021.

C’è chi a 16 anni si accontenta di entrare in un cinema come proiezionista, adattandosi a non sciogliersi in una cabina dove d’estate la temperatura superava i 40 gradi, e chi a 28 decide di prenderlo in gestione, di ridurne i posti a sedere da 700 a 450, di trasformarlo in sala d’essai, d’inaugurarlo con E la nave va di Federico Fellini, di allargare il palco verso il pubblico, chiamandovi a recitare Franca Valeri, il Living Theatre di Judith Malina, Franca Rame, Moni Ovadia, Claudio Bisio, Gioele Dix. Accadde a Verona fra il 1972 e il 1989 all’Alcione di Borgo Venezia, inizialmente affittato a Palmiro e Mariano Olivieri, che già avevano il Filarmonico, fratelli di quell’Aldo Olivieri, portiere della Nazionale, campione del mondo nel 1938.
L’ex proiezionista lo conosco molto bene, visto che firma la presente intervista. Il secondo, Valerio, dopo aver riqualificato l’Alcione, trovò la definitiva consacrazione gestendo il Teatro Nuovo, il salotto buono di Verona. Difficile stabilire da chi abbia preso in eclettismo il direttore del Politeama Rossetti, ma forse un indizio si può rintracciare nel fatto che è l’ultimo di tre fratelli e uno di loro, Maurizio, uscito con un master dalla Berkeley University, s’innamorò di una ragazza californiana e una quarantina di anni fa decise di trasferirsi a vivere in una cittadina dell’Oregon, Eugene, scelta puntando a caso il dito sul mappamondo: lì ha allevato vacche e cavalli in un ranch circondato dalle foreste, ha progettato e costruito case in legno che sono copie perfette di quelle di Cortina d’Ampezzo, ha fatto il boscaiolo e ripiantato tanti alberi quanti ne ha tagliati, infine è approdato come coordinatore alla The Ford family foundation, organizzazione no profit che assiste le comunità rurali.

Avendo sposato Vanessa Carlon, che gli ha dato due figlie, Bianca e Fanny, Paolo Valerio si è perfezionato alla scuola del bello vedendo la moglie impegnata a dirigere il Palazzo Maffei Casa Museo di piazza delle Erbe, a Verona, nato come collezione privata del suocero Luigi Carlon, fondatore della Index, l’azienda di materiali impermeabilizzanti utilizzati per proteggere l’Empire State Building di New York e le Petronas Towers di Kuala Lumpur; una mostra permanente straordinaria che a opere di René Magritte, Max Ernst, Marcel Duchamp, Georges Braque, Pablo Picasso, Marino Marini, Mario Sironi, Giorgio Morandi, Arturo Martini, Joan Miró, Vasilij Kandinskij, Lucio Fontana, Andy Warhol, affianca capolavori di Altichiero, Liberale da Verona, Alessandro Turchi, Felice Brusasorzi.
Alessandro, il padre di Paolo Valerio, era titolare della storica vetreria Vandelli, vicino all’Ala dell’Arena. La madre Nini Bissaro è la sorella di Vittorio Bissaro, ex presidente della Camera di commercio. Il nonno Danilo era fratello di Aleardo Valerio, che fu insegnante dei futuri sindaci Giorgio Zanotto e Gabriele Sboarina e vicepresidente della Banca popolare.
Valerio avverte per la prima volta il richiamo del palcoscenico intorno ai 17 anni e subito comincia a frequentare il Teatro Laboratorio di Ezio Maria Caserta e Jana Balkan, che era ubicato nella stazione di partenza della funicolare di Castel San Pietro, allora fuori servizio.

Nel 1984 si laurea in lettere a Ca’ Foscari con una tesi sulla storia del cinema, dal titolo «L’Actors studio e Un tram che si chiama desiderio». Per scriverla, va a New York, nella piccola palazzina di mattoni rossi sulla 44ª strada dove Elia Kazan, il regista di Fronte del porto e La valle dell’Eden, nel 1947 fondò l’Actors studio oggi presieduto da Al Pacino, Ellen Burstyn e Alec Baldwin.
È stato tentato dal cinema?
«No. È un’arte bellissima, alla cui conoscenza mi ha introdotto il docente con cui mi sono laureato a Venezia, Mario Guidorizzi. Indimenticabili anche le lezioni su Goethe che suo fratello Ernesto, professore di teoria della letteratura, teneva nell’aula magna sul Canal Grande. Ma tra essere artigiano in teatro e artista nel cinema, ho preferito la prima strada».
Cominciando dal Piccolo Teatro di Milano.
«Sì. Nell’ultimo anno di università mi sobbarcavo l’avanti e indietro fra Venezia e Milano. Giorgio Strehler si faceva vedere ogni tanto, però non insegnava più».
Come fu ammesso?
«Con un provino. Ci presentammo in 200. Dopo tre selezioni, in classe eravamo rimasti in 12».
Che cosa voleva diventare?
«Ero un animo inquieto, catturato dal terzo teatro di Eugenio Barba, allievo di Jerzy Grotowski. Si era insediato anche a Verona, grazie a un gruppo di attori sudamericani, guidati da Pepe Robledo, attore argentino fuggito all’estero per sottrarsi alla dittatura del generale Jorge Videla».
Se non fosse stato inventato il teatro, che faceva? Il saltimbanco?
«Giusta osservazione. Ho molto lavorato sulla drammaturgia del corpo. A Pontedera ho avuto due esperienze teatrali irripetibili con Grotowski. Ti faceva lavorare di notte e dormire di giorno. Eravamo alloggiati nelle ex case Piaggio, un tempo abitate dagli operai che fabbricavano la Vespa. Lui si metteva in un angolo. Alla fine ti diceva: “Mi sei piaciuto, perché non ti ho visto”. Era il suo massimo complimento. Recitare, esserci, però quasi scomparendo sulla scena».
Insomma, in banca non sarebbe andato a lavorare.
«Beh, Carlo Goldoni era un cogitore».
Cioè?
«Un avvocatucolo. Magari la vita all’inizio ti costringe a fare un mestiere normale, però poi l’amore per il teatro ti prende e ti trascina via».
Lei non ci ha nemmeno provato.
«Eh no, ci ho provato eccome. Andai per un mese nella vetreria di mio padre, dove mi fu affidato uno dei lavori in assoluto più noiosi: catalogare le fatture».
Da quanti anni ha quella zazzera, raccolta a coda di cavallo?
«Tengo i capelli lunghi fin da quand’ero adolescente. Li ho tagliati solo un paio di volte, intorno ai 20 anni, per esigenze sceniche. Recitavo come comparsa in un film girato a Torri del Benaco, non mi chieda il titolo, non me lo ricordo. Dovevo tuffarmi nel lago di Garda e la capigliatura era d’intralcio. Dicevano che sul set sarebbe arrivata Charlotte Rampling, ma non la vedemmo mai».
Se fosse stato figlio di un operaio, avrebbe scelto la stessa strada?
«Penso di sì. Ho conosciuto parecchi attori che sono arrivati al teatro e al cinema anche se non avrebbero potuto permetterselo. A un certo punto, frequentando l’Associazione tennis Verona, fui per un attimo tentato di diventare professionista di questo sport».
Invece rilevò il cinema Alcione.
«Una combinazione fortuita. Di proprietà della parrocchia di Santa Croce, era chiuso da anni. Don Guido Cappelletto, un salesiano illuminato, ne parlò con Antonio Sambugaro, un amico di mio padre: “Visto che ha un figlio attore e regista, magari è interessato a rilevare la gestione”. Papà fu molto generoso. Avviammo una ristrutturazione durata più di un anno. L’ingegner Alessandro Polo, che aveva progettato la sala, ci ammonì: “Non ancorate niente al soffitto: viene giù tutto”. Copiai dal Teatro Portaromana di Milano: un palcoscenico autoportante in tubi Innocenti».
Chi l’ha indicata per il Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia?
«Ho partecipato a un bando pubblico. Dalla cinquina, che comprendeva l’attore Alessandro Preziosi, hanno scelto me».
Si trova bene a Trieste?
«È una città meravigliosa. Unisce alla bellezza architettonica e paesaggistica una cultura mitteleuropea e una vivacità intellettuale da capitale. Un luogo dell’anima, misterioso, sempre inaspettato. I triestini sono preparati e appassionati, come dimostrano i tanti teatri, le librerie, i caffè. La Regione riserva un’attenzione speciale all’arte e agli artisti, percentualmente investe nel settore più di qualsiasi altra in Italia. Lei è mai entrato al Rossetti?».
No, ahimè.
«È un teatro da 1.530 posti, costruito nel 1878. Meraviglioso. Già amavo Trieste per i trascorsi letterari: ci nacquero Italo Svevo e Umberto Saba, ci visse James Joyce. Riesce sempre a emozionarmi. Al caffè Stella Polare vedo lo scrittore Claudio Magris, un monumento».
È anche la città natale di Giorgio Strehler.
«Credo che sia l’unica in Italia ad avere un assessore comunale ai teatri, Serena Tonel, la vicesindaca. Bravissima. Il rapporto fra abitanti, abbonati e spettatori ne fa la città che ama la recitazione più di ogni altra. Ci aggiunga la lettura. Sulla Napoleonica, strada panoramica a picco sull’Adriatico, ho scattato questa». (Mi mostra la foto di una ragazza, equipaggiata da scalatrice, che sta leggendo un libro mentre è appesa in cordata a una parete di roccia). «Ora capisce meglio di cosa sto parlando».
Ricorda la prima volta che mise piede in un teatro?
«Avevo 16 anni. Comprai il biglietto per vedere al Nuovo l’Equus di Peter Shaffer, imperniato su uno psichiatra che cura un ragazzo patologicamente attratto dai cavalli. Il protagonista era Giovanni Crippa, fratello di Maddalena».
Ha avuto un modello?
«Intende un attore di riferimento? No. Però ho molto amato maestri come Vittorio Gassman, Giorgio Albertazzi e Carmelo Bene. E anche interpreti che magari dicono poco al grande pubblico, ma che io consideravo straordinari, come Tino Schirinzi e Gianni Galavotti».
Chi sono il regista e l’attore che stima di più?
«Per il cinema amo molto Paolo Sorrentino e Toni Servillo. Nel teatro prediligo gli attori con cui sto lavorando e che abbiamo scelto per la nostra nuova stagione, a cominciare da Michele Placido, che è stato il protagonista della mia prima importante regia a Trieste, La bottega del caffé di Goldoni. Li rivedrò tutti sul palcoscenico il prossimo ottobre, un mese particolarmente entusiasmante e follemente impegnativo per me e per il Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia. Mi riferisco a Franco Branciaroli, protagonista del Sior Todero brontolon, con cui saremo in apertura di stagione al Piccolo Teatro di Milano; ad Alessio Boni, che dirigo ne Il vetro della clessidra di Claudio Magris, raffinato monologo anch’esso in scena a Milano al Teatro Ciro Menotti; a Simone Cristicchi in Trieste 1954, produzione con cui inauguriamo la stagione a Trieste e che poi sarà in tour. E a proposito di tournée c’è la ripresa per il terzo anno consecutivo dello sveviano La coscienza di Zeno con un magistrale Alessandro Haber. Fra i registi stimo molto Serena Sinigaglia, cui abbiamo affidato Argo dal romanzo di Maria Grazia Ciani, fresco di debutto al Mittelfest di Cividale».
Le manca il mestiere di attore?
«Sì, mi manca. Infatti ho nuovi progetti da attore anche se il tempo, tra direzione e regie, è veramente poco».
Il suo esordio come attore con chi avvenne?
«Nel Ritratto di Dorian Gray al teatro La Comunità di Giancarlo Sepe, a Roma. Avevo 18 anni. Interpretavo Dorian Gray. Una sfida, una follia assoluta. L’attrice che impersonava Sybil Vane, della quale m’innamoravo, era Cristina Manni, quella che nel 1978 comparve nella locandina di Ecce bombo e che nel film, quando Nanni Moretti le chiede: “Che lavoro fai?”, se ne esce con la frase divenuta un topos: “Giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose...”».
Quand’è stata l’ultima volta che ha recitato e che cosa ha recitato?
«Recito ancora e porto in tournée il mio spettacolo, unico nel suo genere, Il Muro Trasparente. Delirio di un tennista sentimentale, scritto da me e da Marco Ongaro. Un monologo sul tennis, che oggi è uno sport nazionale. Per un’ora faccio 1.000 palleggi mentre il pubblico ascolta in cuffia la storia d’amore, passione e ossessione per il tennis e per una donna. Uno spettacolo molto originale. Sono stato a Roma per gli Internazionali d’Italia e lo spettacolo riprende in tour per la stagione 2025-2026. Sarà in scena ancora a Trieste, Napoli, Bari e spero in altre città del Nordest».
Si è dovuto sforzare di perdere l’accento veronese?
«Ho dovuto lavorarci: la zeta di zucchero, la cantilena, la erre che scivola... Ma Roberto Citran e Giuseppe Battiston recitano con cadenza veneta e hanno ugualmente successo».
È difficile studiare un copione?
«Sì. Un tempo avevo più memoria. Adesso in famiglia lo imparano prima di me».
Quello più ostico?
«Le ho mai raccontato del vento del Nord, tratto dal romanzo di Daniel Glattauer, che mi ha visto regista e attore con Chiara Caselli. Ci ho messo tre mesi a impararlo. Chiara dopo 10 giorni già lo recitava a memoria. Un fenomeno».
Un racconto sull’amore ai tempi di Internet, se non ricordo male. Ma non è diventato virtuale, l’amore, proprio per colpa del web?
«No, esiste e resiste. La Rete funge solo da amplificatore. Io sono portato per gli amori epistolari, con carta e penna, pensi un po’».
Qual è il sacro terrore degli attori? Impappinarsi?
«Dipende da chi è l’attore. Al Nuovo di Verona ho assistito a una scena fantastica. Luca De Filippo recitava in Napoli milionaria!, la celebre commedia scritta da suo padre Eduardo. A un certo punto si ferma e si rivolge al pubblico: “Scusate, posso tornare indietro? Ho scordato una battuta fondamentale per lo spettacolo”. Ovazione. Ripete e si corregge. Ma se a sbagliare fosse stato un altro?».
Le è dispiaciuto di non aver potuto assumere la direzione dell’Estate teatrale veronese, che di recente il Comune intendeva affidarle?
«Purtroppo, per ragioni burocratiche, i due incarichi sono incompatibili e a Trieste ho iniziato un lungo e stimolante progetto che voglio e devo portare a termine nel migliore dei modi, come richiestomi all’unanimità dal mio presidente Francesco Granbassi e dal consiglio di amministrazione, con i quali in questi anni ho sempre lavorato in ottima sintonia. Il ministero della Cultura proprio nei giorni scorsi ha premiato questo progetto artistico con uno straordinario punteggio nel settore dei Teatri delle città, i Tric, importanti istituzioni teatrali italiane: dal quattordicesimo posto, dove si trovava nel 2023, il Politeama Rossetti è passato al quinto».
Da chi ha imparato di più nel suo lavoro?
«Dal regista Gianfranco de Bosio. Un grandissimo maestro. Ruzante me l’ha insegnato lui. Mi scritturò per Le baruffe chiozzotte, che portammo per due anni in tournée, anche all’estero, con un cast indimenticabile, in cui spiccavano il veneziano Virgilio Zernitz e Lucilla Morlacchi. Ricordo ancora una lezione di de Bosio su Goldoni, in francese, all’Istituto italiano di cultura a Parigi».
Non le pare paradossale che si parli tanto di federalismo, ma che a nessuno interessi la cultura regionale? Se no i xe mati no li volemo, un tempo interpretata da Cesco Baseggio e Sergio Tofano, è sparita dalle scene. Idem il teatro ligure di Gilberto Govi.
«Giulio Bosetti, un caratteraccio, mi diceva: “Perché non rifai con me Se no i xe mati no li volemo?”. Aveva ragione: la commedia di Gino Rocca mantiene intatta la sua freschezza. Non per nulla ho portato Le baruffe chiozzotte di Goldoni persino a Mosca».
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