Otto anni dopo la tragedia del Grenfell tower, il padre di Marco: “Aspettiamo ancora giustizia”

Giannino Gottardi perse il figlio Marco e la sua fidanzata Gloria Trevisan nell’incendio della torre a Londra: 72 vittime e una verità che ancora non arriva. «Li hanno uccisi per avidità, non per errore»

Stefano LorenzettoStefano Lorenzetto

Gli hanno ucciso l’unico figlio 8 anni fa. Ora gli è stato comunicato che per scoprire i colpevoli ne servono almeno 10, «o forse di più, io temo che arriveremo al 2028, quando di anni ne avrò 73». Giannino Gottardi è il padre di Marco, morto con la fidanzata Gloria Trevisan, il 14 giugno 2017, nel rogo della Grenfell tower di Londra, insieme con altre 70 persone. Entrambi architetti, i ragazzi vivevano nella capitale britannica per lavoro.

«Abbiamo incontrato la coroner Fiona Wilcox, scoprendo che per quasi due ore i vigili del fuoco ordinarono ai residenti di rimanere dentro gli appartamenti con le porte sbarrate. Pura follia», scuote la testa Gottardi.

«Ma almeno Wilcox ci ha parzialmente consolato spiegandoci che Marco e Gloria non sono morti arsi vivi. Li ha uccisi prima il monossido di carbonio. I detriti della torre, coprendoli, hanno risparmiato i corpi dalle fiamme. Quando ci hanno consegnato gli indumenti che indossava nostro figlio, erano solo in parte bruciacchiati. Carta d’identità, patente di guida, tessera sanitaria, sterline, carte di credito erano integre. Mia moglie tiene da parte come una reliquia un brandello del trench che Marco s’era comprato a Londra».

La villa dove Gottardi abita con la consorte Daniela Burigotto, 65 anni, a San Stino di Livenza, nel Veneziano, dista appena 730 passi dal cimitero. Hanno sepolto i resti del figlio nella nuova ala del camposanto, che a Marco sarebbe piaciuta: tiranti d’acciaio a sorreggere vele di legno, e tutt’intorno tanto verde.

Anche il loculo è chiuso da una lapide particolare, una matrice per litografia all’incontrario, con una foto impressa nel marmo. I fidanzati sorridono dal cielo azzurro, nel quale si librano due libellule. «Marco e Gloria insieme per sempre», c’è scritto. Anche se la morte, in realtà, li ha separati: lei riposa a più di 70 chilometri da qui, nel Padovano, a Camposampiero.

I coniugi Gottardi non hanno mai voluto recarsi sul luogo dove Marco e Gloria hanno trovato quell’orribile fine. «Non ce la siamo sentita. Abbiamo preferito conoscere Diego Dalpra e Alessandro Penna, titolari dello studio di architettura Ciao dove lavorava nostro figlio, e Peregrine Bryant, fondatore di quello che dava lavoro a Gloria. “Due ragazzi bravissimi, avevano potenzialità enormi”, ci hanno detto. Per un attimo, è come se ce li avessero restituiti in vita».

L’inchiesta sulla tragedia è stata svolta dalla Metropolitan police londinese. Ha mobilitato 180 investigatori. Adesso il corrispettivo del pubblico ministero italiano dovrà mettere assieme tutte le informazioni raccolte e decidere chi mandare a processo.

Fino a questo momento risultano indagate 19 società e 58 persone fisiche, con capi di imputazione molto pesanti, che vanno dall’omicidio colposo al falso in atto pubblico, dalla truffa aggravata alla violazione delle norme in materia di edilizia, salute e sicurezza, fino all’illecito nell’esercizio dei pubblici uffici.

In Inghilterra hanno tempi più estenuanti di quelli della giustizia italiana.

«Esattamente, anche perché sono coinvolti il governo centrale, il potere locale, i vigili del fuoco, gli studi di progettazione, i costruttori. Ma a tirarla in lungo sono soprattutto le multinazionali dell’edilizia, che fatturano miliardi di dollari in tutto il pianeta. Si sono affidate ai migliori studi legali e stanno investendo capitali enormi per trovare i cavilli che possano attenuare la loro esposizione in questa catastrofe. Non sono i risarcimenti a spaventarle. No, l’obiettivo delle multinazionali, spiace dirlo, è uno solo: la salvaguardia del brand».

Si sarà fatto un’idea precisa su chi sono i responsabili.

«Tutti quelli che ho citato. Non dimentichi che per questo disastro rischiò di cadere il governo britannico. Ma la prima responsabile è la proprietà, cioè la committente dei lavori. La Grenfell tower fu progettata nel 1967 e costruita nel 1970. Un grattacielo di 24 piani. Nel tempo il cemento armato s’imbruttisce. Di conseguenza, essendo l’edificio nella zona nord di Kensington, vicino a Notting Hill, uno dei quartieri più lussuosi ed esclusivi, hanno pensato di abbellirla. Perciò si sono rivolti a tre fornitori di pannelli per coibentazione, che si sono rivelati micidiali per la propagazione delle fiamme. Sono venute alla luce mail e comunicazioni molto compromettenti, in cui gli ingegneri delle tre società statunitensi scrivevano ai loro capi: attenzione, questi pannelli sono molto pericolosi, non possono essere utilizzati per edifici così alti».

Ma gli inquirenti sono riusciti a stabilire come e perché divampò l’incendio?

«Tutto ebbe inizio dal corto circuito di un frigo in un appartamento del quarto piano. I vigili del fuoco domarono il rogo ma non si accorsero che il fuoco si era propagato all’esterno, aggredendo i pannelli di rivestimento della torre, altamente infiammabili. L’edificio si trasformò in una torcia. I pompieri non avevano né i mezzi né l’addestramento necessario per intervenire su un grattacielo. Gli idranti arrivavano solo a metà del palazzo, non c’era una linea di comando, regnava il disordine totale».

Come pensa che andrà a finire la vostra odissea giudiziaria?

«Credo che i colpevoli saranno condannati, perché le prove sono schiaccianti. Ma sulle pene ho qualche dubbio».

Lei come li punirebbe?

«In due modi, che sono poi quelli classici: togliendo loro quanto ha di più caro ha un essere umano, la libertà, e colpendoli nel portafogli. Non stiamo parlando di omicidi colposi: qui sono bruciate 72 persone per dolo, non per negligenza. Questi individui hanno ammazzato Marco, Gloria e tutti gli altri per avidità, per denaro, per totale spregio del concetto di giusto guadagno».

L’avvocata veronese Maria Cristina Sandrin, che ha assistito i genitori di Gloria, mi ha raccontato: «I rivestimenti utilizzati nella Grenfell tower erano materiali di scarto utilizzati nell’edilizia 30 anni fa».

«Furono scelti per risparmiare 6.000 sterline. Pensi fino a che punto può arrivare l’ingordigia degli uomini».

Oltre che un dolore irreparabile, presumo che abbia dovuto affrontare spese legali ingenti.

«Il primo avvocato, il padovano Fabio Pinelli, ora vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, si mise a disposizione senza chiedere nulla. Poi ci suggerì un legale italiano di Londra, Attilio Cheso. Ma, essendoci come parti lese quasi 1.000 persone, il giudice ha stabilito che fossero solo 14 studi legali a tutelare tutte le vittime e che a pagare i loro onorari provvedessero le autorità britanniche».

Che cosa simboleggiano le due libellule sulla tomba di suo figlio?

«Per mia moglie sono un segno. Se le trova ovunque. Nella nostra casa di vacanze a Caorle. Sui fiori davanti alla lapide. Una volta persino dentro l’auto nonostante i finestrini fossero chiusi. Porta due libellule d’argento anche al collo».

Marco e Gloria.

«Daniela trascorse gli ultimi tre mesi di gravidanza fra letto e poltrona per una minaccia di aborto. L’aveva voluto a tutti i costi, questo unico figlio».

Mi parli di lui.

«Era buono, altruista, riflessivo, determinato, all’antica. In terza media fu l’ultimo della classe ad avere il cellulare. Si diplomò geometra con 96. Noi ci aspettavamo il 100. Allora ci confessò che aveva rallentato per non umiliare i compagni, gli dispiaceva passare per secchione all’esame di maturità. Invece dallo Iuav di Venezia uscì con 110 e lode».

Perché emigrò a Londra?

«Stava in uno studio d’ingegneria a San Donà di Piave e guadagnava 400 euro al mese. Voleva dimostrare di riuscire a farcela da solo. A Londra lui e Gloria potevano permettersi di pagare l’affitto al 23° piano, l’ultimo, della Grenfell tower. Un appartamento nuovo di zecca, con una vista stupenda. Mia moglie e io andammo a trovarli dal 21 al 24 aprile, meno di due mesi prima della loro fine. Fu l’ultima volta che vedemmo nostro figlio vivo».

Quando aveva conosciuto Gloria?

«Nel 2014. In precedenza era stato fidanzato per quattro anni con Chiara, una ragazza di Eraclea. Ogni tanto ancora ci telefona. Vive a Jesolo, lavora in una farmacia».

Marco e Gloria progettavano di sposarsi?

«A mia moglie, che le manifestava il suo rammarico per non aver dato un fratello a Marco, Gloria disse: “Non preoccuparti, i nipotini te li facciamo noi”».

Come padre ha lo stesso rimpianto?

«Più che il rimpianto, ho il rimorso del figlio unico. Per egoismo non ne ho voluto un altro».

C’entra la carriera?

«Non direi, anche se ero responsabile del Cerved per il Nordest. In realtà mi sarebbe piaciuto avere due gemelli, ma poi fermarmi. Daniela ha sofferto tantissimo per la mia scelta. E anche Marco. A 6 anni sbottò: “Se non mi fate un fratellino, comincio lo sciopero della fame”. Oggi, almeno, mi rimarrebbe qualcosa».

Come seppe della tragedia?

«Dovevamo partire di notte per le vacanze. Alle 3.45 la mamma di Gloria informò mia moglie dell’incendio scoppiato nella Grenfell tower. Marco non ci aveva chiamato per non impensierirci. Lo cercai subito sul cellulare. La voce non era concitata. Voleva convincermi che i vigili del fuoco stavano risolvendo l’emergenza».

Lei gli credette?

«Solo per 10 minuti. Ma quando vidi in diretta su Sky la torre che bruciava, capii che era la fine. Gloria disse alla mia futura consuocera: “Mamma, sto morendo”, e recitò l’Ave Maria».

Per quanto tempo restò in linea con suo figlio?

«Le comunicazioni s’interrompevano spesso. L’ultima telefonata risale alle 4.10. Un messaggio registrato da Marco nella segreteria del mio cellulare, mentre io tentavo incessantemente di richiamarlo».

Che cosa dice?

«È dura...». (Gli occhi si riempiono di lacrime). È un saluto di otto secondi: “Non riesco a capire perché cade in continuazione la linea. Vi voglio bene. A tutti e due, te e la mamma”. Sapeva di dover morire, ma temeva di spaventarci. Mi scostai perché mia moglie non udisse quelle parole. Daniela si accasciò sul divano. Pregò tanto, ma fu inutile. Continuai a formare il numero per un’altra mezz’ora. Dava libero. Però Marco non rispondeva più. Smisi di chiamare».

Chi ha identificato la salma di suo figlio?

«Né io né mia moglie abbiamo voluto assistere alla pietosa ricognizione. Marco è stato riconosciuto dal Dna di due scarpe da calcio che avevo consegnato a un amico architetto. L’hanno trovato abbracciato alla sua Gloria. I corpi sono tornati in Italia dentro casse di zinco sigillate. Ma per me la bara potrebbe anche essere vuota e non cambierebbe nulla. Voglio ricordarmelo com’era da vivo, non da morto».

Quindi come?

«Felice. Dopo 15 giorni che era arrivato a Londra, già lo mandavano da solo nei cantieri. E Gloria stava seguendo il recupero delle stalle di un vecchio ospedale a Chelsea, nel centro di Londra. Mia moglie e io spesso ci chiediamo: ma dove sarebbero arrivati questi due ragazzi? In poche settimane avevano messo a posto tutti i tasselli della loro vita. Il futuro si prospettava radioso. Marco avrebbe potuto sfruttare la sua famiglia, in fin dei conti siamo benestanti. Invece no, ha voluto camminare con le sue gambe. Per me è un esempio. Si era ritagliato da solo uno spazio nel mondo del lavoro. Questo Paese investe 180.000 euro per portare alla laurea un ragazzo così e poi permette che sia costretto a emigrare. È una vergogna».

Non esiste un vocabolo per definire la condizione sua e di sua moglie. I figli possono restare orfani, i coniugi vedovi. Ma i genitori che perdono i loro ragazzi non hanno nome.

«Né nome né null’altro. Riempio le giornate con la fondazione Grenfellove Marco e Gloria onlus. Abbiamo scelto di chiamarla così perché l’amore è più forte della morte. Fare del bene aiuta a stare bene, o, se non altro, a stare meno male. A San Giorgio delle Pertiche, il paese dov’era cresciuta Gloria, abbiamo appena regalato un’aula scolastica Snoezelen, un ambiente multisensoriale che combina luci, suoni, aromi e sensazioni tattili per favorire l’apprendimento nei bambini diversamente abili. Tre anni fa ne avevamo donato un’altra all’istituto comprensivo di San Stino di Livenza, dove ha vissuto Marco»

E questo la consola?

«Sì. Ma quando mi sveglio e quando mi corico, è terribile. Mi sento solo, vulnerabile».

Siete in contatto con Loris Trevisan ed Emanuela Disarò, i genitori di Gloria?

«Ogni tanto c’incontriamo. A volte siamo stati insieme anche a Natale e a Pasqua, quando la solitudine diventa più lancinante. Loro hanno la fortuna di avere un figlio più grande, che gli ha dato due nipotini».

Ha mai rivisto suo figlio in sogno?

«A mia moglie succede di continuo. A me è apparso poche volte. Nel sonno una volta ero con lui a Caorle. Marco doveva partire con un ricco emiro. Per dove, non lo so. Però in famiglia eravamo d’accordo, è questo l’importante».

A noi non è toccato emigrare, ai nostri figli sì, come accadeva qui nel Triveneto ai loro bisnonni. In che cosa abbiamo sbagliato, signor Gottardi?

«Per la paura di tornare poveri, abbiamo creato una società che tutela solo noi stessi. Marco m’invidiava perché sono nato nel 1955. “Tu hai potuto vivere nel periodo del boom”, mi diceva».

Con quei baffi d’altri tempi, suo figlio mi ricorda le foto dei soldati della Grande guerra sepolti nel Cimitero degli Eroi di Aquileia.

«È morto anche lui così, in una guerra combattuta senz’armi, che uccide i giovani».

Vorrebbe raggiungerlo?

«Mia moglie sì, per Daniela sarebbe l’unico modo di ritrovare la pace. Io cerco di resistere».

Ma lei pensa che ci sia il paradiso, dopo?

«Credo che qualcosa esista. Che cosa non lo so. L’inferno no, perché ci siamo già dentro».

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