I ricordi di Carla Tagliaferri: «Ero amica di Falcone, mi urlò: va’ via, io sono un morto»
L’architetta che ha incontrato la Storia, 92 anni, veronese: «Peggy Guggenheim? Una dama impettita»


Carla Tagliaferri, socialista d’antan, conserva un vivo ricordo di quel giorno del 1976 quando, alla chiusura della campagna elettorale in piazza Santi Apostoli, a Roma, il segretario Bettino Craxi, che l’aveva inserita nella direzione nazionale del Psi, chiese proprio a lei di consegnare un garofano rosso agli oratori e di presentarli alla folla: «Nella mia beata incoscienza, ero tranquilla. Invece loro, pochi istanti prima di salire sul palco, ingollavano ansiolitici». Che differenza, sembra dire, con i leader che aveva conosciuto. Pietro Nenni: «Protettivo. Quando ero incinta, mi augurava di far nascere una rossa, rossa di capelli e di cuore, come me». Sandro Pertini: «Un burbero papà. Molto ligure, molto chiuso. Ma diventava aperto e gioviale se conquistavi la sua fiducia». Altiero Spinelli: «Serio, concreto. All’inizio m’incuteva soggezione. Quanto ho imparato da lui!».
La donna che ha incontrato la Storia va orgogliosa dei suoi interventi ambientali in parchi e riserve naturali d’Italia (Monti Simbruini, Pollino, Circeo, Insugherata, Pineto, Valle dei Casali), dei suoi quartieri-giardino (a Endoven, in Olanda), del suo piano edilizio per Beirut, dei suoi Prg (da Latina a Ostuni), dei suoi acquedotti, dei suoi dispensari in Madagascar (con Ferdinando Aiuti, l’immunologo che per primo lottò contro l’Aids), e anche della sua villa di Garda con vista sul lago e sulla Rocca, che si è progettata attorno a tre ulivi del Settecento: «Silvio Berlusconi era pronto a staccarmi un assegno in bianco pur di averla».
Carla Tagliaferri, 92 anni, architetta e pittrice veronese, ne ha di vicende da raccontare. Fu in confidenza con due papi, Wojtyla e Bergoglio. Il suo libro Green places, creative garden design venne presentato al Guggenheim museum di New York dall’allora presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton. Il leggendario Le Corbusier la chiamava «l’ange aux cheveux blonds», l’angelo dai capelli biondi. Ha ascoltato le confessioni di Frank Lloyd Wright, il progettista della Casa sulla cascata. Ha lavorato con Luigi Piccinato, il celebre architetto nato nel 1899 a Legnago e cresciuto a Padova, dove il padre Mario, avvocato socialista, nel 1913 fu eletto deputato. È stata assistente di Bruno Zevi a Venezia e Roma. Ha frequentato Alvar Aalto.
Per capire di che stoffa è fatta Tagliaferri, basterà dire che scagliò il libretto universitario in faccia a Carlo Scarpa, perché allo Iuav di Venezia, dove nel 1952 con lei erano iscritte solo altre cinque donne, durante l’esame di scenografia il maestro se ne uscì con un apprezzamento che ai nostri giorni gli sarebbe costato un processo: «Bella la sua camicetta, e anche quello che c’è sotto». Lei, credente («sono cattolica ma anche di sinistra, perché penso che si debba dar voce a chi non ha voce»), ha sempre difeso le donne, nella Fidapa («iscritta dal 1959, tre volte presidente») e nella Soroptimist international, disprezzando «quelle che si presentavano a Craxi in via del Corso con le calze smagliate per mostrare che erano socialiste».

La veterana degli architetti è l’unica italiana che il 16 marzo 1978 si trovò faccia a faccia con il brigatista rosso Mario Moretti, travestito da ufficiale dell’Aeronautica militare, pochi istanti prima che Aldo Moro venisse rapito e i cinque uomini della scorta finissero crivellati dai colpi di mitra. «Toccò anche a me essere minacciata di morte dalle Br».
Che ci faceva in via Fani?
«Abitavo al Trionfale, come Moro. Stavo andando al bar per la colazione. Chiesi a quel tizio perché il locale fosse chiuso. Lui m’invitò ad allontanarmi. Gli domandai che ci facesse lì. “Vado a trovare un amico”, mi rispose. Ma dagli amici si va in borghese, non in divisa, obiettai».
Una bella faccia tosta.
«Sono molto curiosa. Salii in macchina per raggiungere un altro bar. Neanche 300 metri e sentii ta-ta-ta-ta-ta. Raffiche di mitra. Tornai indietro. Rimasi lì, impietrita. Arrivarono i poliziotti: “Dov’è Moro?”. Lo chiesero a me, capisce? A un ufficiale indicai persino la strada del Pineto che potevano aver percorso i terroristi: la facevo spesso anch’io perché non era trafficata. Al processo sarebbe saltato fuori che la base dell’agguato era lì vicino, in via Massimi 91. Sembrava che i terroristi si fossero barricati nella scuola elementare frequentata dal mio unico figlio».
Come si chiama?
«Marco. È medico a Trento, specialista in terapia d’urgenza. Nato dal matrimonio con Gianfranco Redivo, il mio defunto marito, celebrato nella cappella di San Carlo dei conti Albertini, a Garda».
Era gardesano?
«No, friulano. Architetto come me. Lo conobbi per caso in un pomeriggio piovoso al caffè Doney di via Veneto, a Roma. Mi ero trasferita nella Capitale per seguire Bruno Zevi alla Sapienza. Io chiamavo Zevi professore, lui signorina. Ha continuato a farlo persino dopo le mie nozze: “Signorina, come sta suo marito?”».
Come si guadagnava da vivere suo padre?
«Era ingegnere. Di origini piemontesi. Il Castello di Bruzolo, in Val di Susa, apparteneva alla sua famiglia. Io l’ho donato al Fai».
Per quale motivo?
«Non ero in grado di mantenerlo. Un complesso del XIII secolo, tre piani, due torri, una cinquantina di stanze, parco, chiesa privata. C’era un uomo stipendiato solo per pulire i vetri. Ora lo ha acquisito lo Stato, perché ospitò i Savoia e il cardinale Richelieu e lì venne firmato il Trattato di Bruzolo».
Come arrivò suo padre a Verona?
«Al seguito di mio nonno, il generale Florenzio Tagliaferri, che aveva sposato Maria Carrera, il cui padre, Pietro, costruì mezza Torino, compresa, pare, la villa della Bela Rosin, al secolo Rosa Vercellana, amante e poi moglie morganatica del re d’Italia, Vittorio Emanuele II di Savoia».
Sua mamma era piemontese?
«No, veronese: Tina Borghetti, per una vita insegnante di latino e greco all’educandato Agli Angeli. Io invece ho studiato al liceo Messedaglia e mi sono laureata all’Università di Venezia nel 1960».
È vero che fu sua l’idea di allestire gli spettacoli al Teatro Romano di Verona?
«Verissimo. Ero una ragazzina. Con un gruppo di amici, misi su una piccola compagnia teatrale. Recitavamo Goldoni nelle sale parrocchiali. Andai da Antonio Avena, il direttore dei musei civici che trasformò un anonimo edificio del centro storico, in via Cappello, nella Casa di Giulietta. Gli chiesi di poterci esibire al Teatro Romano. Sua reazione: “Figlia mia, è diroccato”. Insistetti. Ci mise a disposizione la chiesetta dei Santi Siro e Libera, all’interno delle rovine. Lì costruimmo le scenografie di cartapesta per uno spettacolino. Il regista Gianfranco de Bosio venne a saperlo: “Potremmo usare il luogo per qualcosa di più serio”, ragionò. Così nacque l’Estate teatrale veronese».
Può reclamare le royalty.
«Non ha idea di quante cose ho ideato e progettato senza incassare una lira. Mio figlio mi ripete: “Sei nata troppo presto”. Me lo diceva anche il mio amico Franco Zeffirelli. Venne qui e vide che uno dei tre ulivi secolari non c’era più. Era stato abbattuto da un fulmine e io non avevo i soldi per rimpiazzarlo con un altro ugualmente antico, costava un patrimonio. “Donna Carla, te lo mando io”. E così fece. Dovevamo realizzare insieme il Museo del cinema a Roma, a Villa Stuart, sorta nel Seicento su una proprietà dell’omonima famiglia inglese».
Nota per essere stata ritrovo di occultisti e spiritisti sul finire dell’Ottocento.
«Zeffirelli l’avrebbe restaurata e ceduta allo Stato dopo 30 anni. Non se ne fece nulla. Carlo d’Inghilterra venne a inaugurare una mia mostra all’Accademia britannica di Roma. Lo pregai di finanziarci. “Devo chiedere a maman”, annuì il figlio della regina. Principe, i soldi li ha anche lei, replicai secca. “Quanto le serve?”. Un milione di lire. “D’accordo, le darò mezzo milione”. Durante il pranzo, mi parlò solo di case e di ambiente. Gli dissi: secondo me, a lei piacerebbe di più fare l’architetto che il re. Si mise a ridere: “Forse”».
Perché i brigatisti volevano ucciderla?
«Ero nella commissione per il riordino delle carriere universitarie. Deve sapere che le Br furono manovrate da burattinai, i quali se ne servivano per scopi reconditi».

So che era amica del giudice Giovanni Falcone.
«Il giovedì prima che lo uccidessero, lo incontrai all’uscita dal ministero della Giustizia. Volevo chiedergli di tenere alla Fidapa una conferenza sull’etica. Stavo per abbracciarlo, ma lui mi allontanò in malo modo: “Va’ via! Io sono un morto che cammina. Non lo capisci che potrebbero ammazzarmi anche qui?”. Gli risposi: esagerato. “Sabato devo andare a Palermo con Francesca. Sentiamoci lunedì”. Tre giorni dopo, lui, la moglie e i tre agenti della scorta finirono dilaniati da 1.000 chili di tritolo. Al processo per la strage di Capaci saltò fuori che la mafia aveva progettato diversi tentativi di uccidere Falcone, uno dei quali proprio nei pressi del ministero della Giustizia. Non aveva esagerato».
Cominciò come pittrice.
«Ebbi per maestro Emilio Vedova a Venezia. Però mio padre m’intimò: “Vuoi fare la pittrice? l’architetta? la pianista? la tennista? la politica? Scegli! Basta che tu decida una sola carriera».
E lei scelse architettura.
«Sì, dopo aver ascoltato una lezione di umiltà tenuta da Frank Lloyd Wright allo Iuav. Ci disse: “Mi devo scusare con voi studenti. Ho progettato una casa sul Canal Grande e mi è stata bocciata. E hanno fatto bene a respingerla, perché non si costruisce in un luogo che non si conosce. Prima di progettare devi stare lì sei mesi, sederti, mangiare, bere, fare l’amore, quello che volete. Ma bisogna vivere il luogo per poter costruire”».
Con Carlo Scarpa litigò.
«Con Scarpa non sono mai andata d’accordo, fin dall’episodio della camicetta e del libretto che gli tirai addosso. Lui non era un architetto, non aveva neppure la laurea. Era un bravissimo designer, un decoratore. Ma l’architetto, per me, è qualcuno che sa dominare lo spazio. Neppure Michelangelo era architetto, però dominò lo spazio».

A Venezia divenne assistente di Zevi allo Iuav.
«Insieme andavamo a cena da Peggy Guggenheim, l’eccentrica collezionista, nella sua casa-museo sul Canal Grande. Premurosa con gli ospiti, però troppo austera, impettita. Volle portarmi in camera sua per mostrarmi alcune opere di Alexander Calder. Mostrava un distacco da gran dama. Non legammo mai. Sembrava nata nell’Ottocento».
Erano più alla mano i papi.
«Senza dubbio. Litigai con Berlusconi, il Pci e la Chiesa perché volevano abbattere l’ex manicomio di Santa Maria della Pietà a Roma. Per fermare lo scempio, chiesi udienza a Giovanni Paolo II. “Lei ha degli occhi penetranti”, si complimentò il Pontefice. Non quanto i suoi quando li pianta addosso alle persone, risposi. “Allora li abbiamo tutt’e due”, concluse. E io: sì, solo che lei è il Papa mentre io non sono nessuno. “No, non è vero”, reagì Wojtyla. “Lei è quello che deve essere!”».
Molto diretta.
«Ho un grosso difetto: non sono mai caduta in ginocchio di fronte ai grandi della Terra, e posso dirlo di Salvador Allende, Willy Brandt, Angela Merkel, Mario Soares, Enrico Berlinguer... Li ho conosciuti tutti».
Anche di papa Francesco?
«Con lui era impossibile sentirsi intimoriti. Una domenica con un’amica vado a messa dai domenicani nella basilica di Santa Sabina all’Aventino, a Roma. All’omelia capisco che il celebrante è straniero. All’uscita, inciampo nell’acciottolato del piazzale e sto per cadere. Sento una mano che mi afferra per il braccio e mi sostiene. Mi giro: è lui, il prete della predica. Che esclama: “Una signora di una certa età non dovrebbe girare con tacchi così alti”. Rido e gli chiedo: ma che ci fa lei qui? “Arrivo dall’Argentina, sono un cardinale, martedì devo partecipare al conclave”. Io: venga, le mostro qualcosa di stupendo. E lo accompagno nel vicino Giardino degli Aranci, sempre tenuta a braccetto».
Da lì si gode una veduta spettacolare di Roma, in particolare sul Cupolone di San Pietro.
«Era estasiato: “Mai visto prima, nessuno me ne aveva parlato. E ora che fa di bello con la sua amica?”. Vado a casa e preparo il pranzo, vuole unirsi a noi? “Quasi, quasi. Qui mi danno la minestrina. Ma non vorrei che il priore si offendesse. Magari domenica prossima...”. Il mercoledì seguo la fumata bianca in tv e mi prende un colpo: quel cardinale era diventato papa Francesco!».
Che storia.
«Mandai al Pontefice il mio libro La ricerca dell’anima laica, ricordandogli il nostro incontro. Mi telefonò: “Vorrei che tutti i sacerdoti capissero quello che ha scritto lei. Farò delle fotocopie di queste sue pagine e le manderò ai miei confratelli per le meditazioni”. Era piaciuto anche a papa Wojtyla, che mi ringraziò con una lettera».
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