
Smart working: ecco perché ha fatto bene alle donne lavoratrici
Uno studio di Bankitalia mette nero su bianco i benefici del lavoro agile per l’occupazione femminile e per il Mezzogiorno. Tra welfare per le famiglie che scarseggia e desiderio di affermarsi professionalmente, così questa possibilità conosciuta durante il lockdown è diventata strumento di integrazione lavorativa
Abbiamo imparato a conoscerlo davvero durante la pandemia. Prima era un’opzione disponibile in alcune rare aziende che avevano già sposato il lavoro agile in tempi non sospetti.
Poi sono arrivati il Covid, il lockdown e la necessità di continuare a lavorare, ma preservando la salute personale e dei propri cari e magari destreggiandosi nella gestione di figli a lezione da casa con la didattica a distanza o di persone malate. E così nel vocabolario di uso comune è entrata dirompente la parola smart working, ovvero lavoro agile o lavoro da casa.
Scelto da tantissimi, caldeggiato da molte aziende e osteggiato – più o meno velatamente – da altre, è di fatto diventato pane quotidiano durante la pandemia e una delle eredità (positive) del Covid. Lo smart working, infatti, è stato reso strutturale in numerosissime realtà sia pubbliche che private (nel 2025 si stima che i lavoratori in smart siano 3,7 milioni), pur con diversissime gradazioni di giorni al mese a disposizione dei dipendenti.
E ha portato, in generale, una serie di benefici al mondo del lavoro che un recentissimo studio della Banca d’Italia ha messo nero su bianco: lo smart working ha infatti ampliato la partecipazione al mercato del lavoro per le donne, soprattutto quelle con figli piccoli, e per i lavoratori nelle aree del Mezzogiorno.
Lo studio di Bankitalia
Si intitola “Work from home, labour market partecipation and employment” lo studio firmato dagli economisti Riccardo Crescenzi, Davide Dottori e Davide Rigo che analizza come lo smart working, da risposta d’emergenza alla pandemia, sia diventato un fattore strutturale del mercato del lavoro in Italia, capace di ampliarne i confini. Si dimostra così il potenziale di questa modalità lavorativa che sino a marzo del 2020 era pochissimo diffusa.
Lo studio ha analizzato l’impatto dello smart working tra il 2019 e il 2022 sfruttando una banca dati amministrativa unica a livello europeo, costruita grazie agli obblighi di comunicazione che le aziende hanno nei confronti del Ministero del Lavoro.
I benefici
Lo studio ha fatto emergere come la possibilità di stare in smart working abbia inciso positivamente sia sul tasso di attività lavorativa, sia sull'occupazione, soprattutto dove l'accesso al mercato del lavoro è storicamente più basso. Nelle aree meridionali e in quelle meno popolate, il lavoro a distanza ha rappresentato un'opportunità per chi, in assenza di servizi di welfare adeguati, avrebbe rischiato di restare inattivo. Grazie allo smart working, infatti, aumenta la flessibilità organizzativa del lavoratore e si azzerano i tempi e i costi degli spostamenti.
I dati mostrano che un aumento standardizzato dei lavoratori in smart working, rapportato al totale degli occupati locali, ha prodotto un incremento di 0,9 punti percentuali nel tasso di partecipazione e di 0,7 punti in quello di occupazione.
Effetti che diventano più forti quando lo smart working riguarda le donne e la fascia 25-49 anni, la più coinvolta nelle responsabilità di cura dei bambini.
«Questa evidenza solleva la questione delle differenze di genere, dato che in Italia i compiti di cura familiare ricadono in gran parte sulle donne», scrivono gli economisti nello studio, «I risultati mostrano che l’impatto sulla variabile dipendente è maggiore in seguito all’aumento dello smart working tra le donne, sia nel gruppo 15-64 anni sia, in misura ancora più marcata, nel gruppo 25-49 anni. Questo è coerente con l’interpretazione secondo cui lo smart working potrebbe aver contribuito ad attenuare il trade-off tra vita lavorativa e familiare, offrendo maggiore flessibilità nella gestione dei compiti di cura».
Un aspetto cruciale riguarda infatti la scarsità di servizi per l'infanzia. Lo studio documenta che l'impatto positivo del lavoro da remoto si concentra proprio nelle aree dove l'offerta di asili e strutture di sostegno familiare è limitata. In assenza di questo supporto, la flessibilità organizzativa e la riduzione dei tempi di spostamento offerte dallo smart working diventano decisive.
«Nelle aree con bassa disponibilità di servizi per l’infanzia, la possibilità di lavorare da casa può essere un fattore decisivo nella scelta di entrare nel mercato del lavoro, specialmente per chi deve conciliare lavoro e cura dei figli», prosegue l’analisi.
Non solo: si legge nello studio di Bankitalia come «Le aree metropolitane sono maggiormente coinvolte nello smart working. Ciò è probabilmente legato alla maggiore presenza di occupazioni nel settore dei servizi, svolte da lavoratori altamente qualificati, che sono generalmente più adatte al lavoro da remoto».
L’effetto inclusivo
Il nostro Paese presenta storicamente tassi di attività lavorativa tra i più bassi in Europa, soprattutto tra le donne e al Sud. Inoltre, prima del Covid, il ricorso al lavoro da remoto era molto più contenuto che altrove.
Da qui l'effetto inclusivo: se nel Centro-Nord urbano lo smart working è più diffuso ma meno decisivo per spingere nuovi ingressi nel mercato, al Sud e nelle zone periferiche ha svolto un ruolo chiave. In queste aree, meno dinamiche e con minori servizi, il lavoro da remoto ha offerto una porta di accesso per persone che altrimenti sarebbero rimaste fuori.
Una buona spinta, insomma, in un Paese che deve fare i conti con bassa natalità, invecchiamento demografico e misure di sostegno alle famiglie e alla genitorialità ben inferiori rispetto al resto d’Europa.
Lo studio completo
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