La sindaca Manushi: «Donna, straniera, giovane e di sinistra. Ma ce la si può fare»
Sindi Manushi, esponente dem, dal 2023 guida il Comune di Pieve di Cadore, nel Bellunese. E’ avvocata civilista e alle urne ha ottenuto quasi il 100% dei voti: «Arrivammo via mare con nove valigie. Ho trovato più resistenze nel campo della giustizia che in quello della politica»

Sindi Manushi, 32 anni, esponente Pd, da maggio del 2023 è sindaca di Pieve di Cadore, in provincia di Belluno; la prima in Italia di origine albanese. Elbasan è la sua città di origine.
Manushi è arrivata in traghetto in Veneto quando aveva appena 8 anni, insieme alla mamma e al fratello, mentre il padre li aveva preceduti. Si è laureata in Giurisprudenza a Trento ed è diventata avvocata civilista, lavora in uno studio legale bellunese.
Alle elezioni amministrative nel paese che ha dato i natali al pittore Tiziano, ha ottenuto 1.365 voti, quasi il 100% dei consensi.
Sindi Manushi: migrante, donna, giovane e di sinistra. È già difficile essere una di queste cose da sola, come ha fatto a sopravvivere e ad emergere riunendole tutte?
«Non sono grande fautrice del “se vuoi puoi”, non tutto quello che si desidera si trasforma in realtà perché ci sono elementi cogenti e perché si devono allineare i pianeti affinché le cose accadano.
Ci sono tanti fattori per i quali sono diventata quella che sono oggi: sicuramente i tempi, il luogo, un paese di montagna in cui la maggior parte delle persone si conosce e ciascuno acquista un peso specifico. Di mio ci ho messo il non essermi adagiata sulla mia storia, non averne fatto un emblema.
Ho preso tutte queste condizioni come un presupposto, ne ho tratto degli insegnamenti che mi sono serviti. Non voglio uscirne da macchietta, da personaggio, non voglio legarmi agli stereotipi. Essere donna e giovane non è semplice, politica e straniera men che meno, e di sinistra in Veneto peggio che peggio: sono tutte condizioni che possono creare sofferenza o disagio in determinati momenti della vita.
Ma se non raccogli questa sofferenza o disagio o ostilità e ne trai insegnamento, allora, è vita sprecata».
Migrante, dunque. Il primo pensiero di bambina di 8 anni sbarcando dal traghetto che l’ha strappata dall’Albania: a) Quando c’è quello di ritorno? b) Italia, eccomi c) Troppo confusa per qualsiasi pensiero.
«Era maggio, è stata una traversata confusa, con il mare molto mosso. Poi, un lunghissimo viaggio in Intercity da Brindisi a Pieve di Cadore. Ho lasciato una città di 120 mila persone, un centro industriale e metallurgico in pianura, una sorta di Taranto senza mare. Un contesto completamente diverso rispetto a Pieve di Cadore. Viaggiavamo con nove bagagli, mia mamma aveva portato con sé tutta la casa, tende comprese.
Lei era molto ancorata alle sue cose, mentre papà era più proiettato in Italia visto che aveva fatto il ricongiungimento. Io ero divisa tra queste due anime: da un lato la paura per lasciare il noto, i compagni di classe, la mia lingua. Ma dall’altra parte la curiosità di capire come si viveva in Italia, che io avevo conosciuto attraverso la Rai, Enzo Biagi, i tiggì, la Carrà... e la pubblicità dei gelati Magnum».
Suo papà già lavorava qui?
«Era qui dal ’98, in seguito alla guerra civile in Albania, lavorava a Cortina, nella ristorazione. È arrivato come clandestino, non mi vergogno che lo sia stato. Essere un clandestino non vuol dire essere un delinquente. Poi nel 2001 siamo venuti io, mia mamma e mio fratello. Tutti in regola».
E siete andati a vivere subito a Pieve di Cadore.
«Si, all’inizio è stato un po’ difficile. È stato un cambiamento anche climatico, paesaggistico e sensoriale. Venivo dalla pianura, da un orizzonte piatto. Mi sono trovata tra le montagne che precludono lo sguardo. Poi è diventato tutelante averle intorno: quando capisci il valore di quello che c’è dentro, diventano una barriera di protezione».
Oggi quello stesso corridoio di mare viene percorso al contrario da altri migranti, quelli mandati da Meloni, d’accordo col governo albanese: che effetto le fa?
«I clandestini sono persone come tutte noi, essere clandestino non è essere delinquente. L’esperimento albanese? Totalmente fallimentare, sia sotto il profilo economico che umano: abbiamo speso un miliardo e rimpatriato nove persone facendone soffrire invano molte altre. Un’operazione di propaganda andata male che ora spero chiuda del tutto. Non ha permesso di regolarizzare un fenomeno che è vecchio come il mondo: questo, sia chiaro, non significa spalancare le porte dell’Italia e accogliere tutta l’Africa come dice il centrodestra, ma normare un processo che non si può storicamente fermare. Il 1991, con lo sbarco dalla Vlora, ha segnato l’inizio della migrazione di massa. Ebbene, in più di 30 anni non si è riusciti a capire che il processo va governato. Noi ci fermiamo all’emergenza, a quella degli sbarchi; dopo i centri di prima accoglienza non si sa più nulla. Conseguenza del populismo, anche di governi di centrosinistra. Invece compito di un politico è quello indirizzare l’opinione pubblica».
A Pieve di Cadore, un centro di accoglienza lo avete.
«Si c’è un cas, finora ben gestito da una coop. Le persone che sono state accolte hanno appreso la lingua e lavorano».
Sono rimaste in montagna?
«Hanno iniziato qui, ma il problema è il dopo: vengono indirizzate ad aziende del territorio, escono dal sistema di accoglienza, ma non trovano casa. Abbiamo dovuto dire loro di emigrare più a sud, a Padova, dove forse c’era posto. Il paradosso è che nonostante il Cadore si stia spopolando e la natalità sia molto bassa, non si trova casa perché il mercato è saturo e destinato alle locazioni brevi. Vale anche per gli italiani: insegnanti, medici, infermieri che arrivano da fuori».
Dica qualcosa per convincere i giovani come lei a restare, a non lasciare la montagna, l’Italia.
«No guardi, non farei alcuna richiesta ai giovani: devono seguire le loro aspirazioni per una vita migliore. E poi non è solo la montagna, ma tutto il Veneto a conoscere la migrazione. Non perché qui non si stia bene, ma perché il territorio non dà quelle opportunità di vita che altrove evidentemente ci sono. Io le richieste le faccio alla politica nazionale: occorre dare ai ragazzi la casa e un lavoro equamente retribuito. Questi sono i pilastri di una vita decorosa».
Le Olimpiadi aiuteranno a rilanciare il Cadore?
«Peggioreranno il problema della casa. Ci sarà un trend positivo del turismo, ma che rischia di espellere i residenti. E questo perché la politica non è stata in grado di regolare le due esigenze: abitare la montagna e garantire fonte di reddito e di guadagno. Bisogna mettere mano alle norme sulle locazioni».
Veniamo all’essere donna. Fino a qualche tempo fa si sarebbe detto di lei che è “sindaco” e “avvocato”. È stato più facile diventare “sindaca” o “avvocata”? Al di là dell’aspetto linguistico: dove ha trovato più forti le resistenze per l’affermazione femminile?
«È stato più difficile nell’ambiente della giustizia, un po’ più impostato e conservatore, che non nella politica dove c’è più flessibilità. Ho trovato nella professione, nelle generazioni precedenti, donne molto dure e spigolose, forse per un’esigenza di autodifesa in un ambiente prettamente maschile».
Episodi personali?
«Non ci sono episodi che mi hanno impedito di affermarmi come donna, anche se è stato più difficile farlo. Ho fatto molta fatica a far prendere atto del mio ruolo. Un uomo di mezza età che diventa sindaco è subito autorevole. Con me invece si sono trovati davanti una trentenne, albanese, donna: non veniva data per assodata la capacità e ho dovuto dimostrarla».
In autunno si vota per la Regione. Perché non lei come candidata del centrosinistra, magari in sfida con De Carlo? Un derby.
«Sarebbe divertente il derby cadorino. Io e De Carlo siamo opposti l’uno per l’altro e felici di esserlo. Ma lui è a un punto della sua carriera in cui può pensare alla regionali in modo serio, io no. Io sono all’alba del mio percorso e tutto quello che voglio è essere una brava sindaca. Ho bisogno di guadagnarmi le cose e in questo momento non sarebbe serio andare alle regionali, tradirei la fiducia di chi mi ha eletto due anni fa. La politica per essere credibile deve essere seria, partendo da se stessi. Le cose bisogna farle bene, senza smania di arrivare. Smania che io non ho. A me la politica piace fin da quando ero bambina, ma non la uso come trampolino. Vengo dal nulla e non ho paura del nulla».
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