Silvia Loreggian: «La mia vita verticale tra il sogno e i rischi»
Guida alpina padovana cresciuta sulle Dolomiti, ora Silvia Loreggian è titolare di un’agenzia a Chamonix: «La montagna ti mette a nudo, racconta di te quello che sei veramente». E sull’overtourism: «Dovremmo riuscire a sfruttare di più la bassa stagione, ma servono servizi»

Silvia Loreggian, lei è guida alpina e scalatrice, quando e perché ha scelto una vita in verticale?
«La scelta di una vita incentrata sulla montagna affonda le radici nel passato, nella grande passione dei miei genitori e dei miei nonni che avevano una casa in Val di Fassa. All’Università mi sono iscritta a Geografia e Turismo. Subito dopo la laurea mi sono trovata a lavorare nel chiuso di un ufficio: ho subito capito che non faceva per me. È emersa l’esigenza di stare fuori, all’aria aperta, di praticare sport. Nel frattempo ho iniziato ad arrampicare più seriamente e quindi si è fusa quella che era una passione forte per l’arrampicata con la scelta di cambiare vita, andando ad abitare in montagna. Poi: mi è sempre piaciuto viaggiare, ho iniziato a fare le prime spedizioni legate all’alpinismo. Per l’arrampicata un momento illuminante è stato quando ho provato la palestra indoor: una droga, ne vuoi ancora, e ancora di più. E, dopo aver scalato tanto, è arrivata la seconda illuminazione: quella di diventare guida alpina. Una vera scoperta: poter lavorare senza mai annoiarsi e restando nella natura».
Quali sono i seracchi che teme di più in questo lavoro?
«In questi anni la principale difficoltà è stata quella di riuscire a gestire l’entusiasmo, il divertimento, la spensieratezza, il coinvolgimento positivo dei clienti mantenendo tutto ciò in equilibrio con la gestione del rischio e della sicurezza. Certe attività sono pericolose e c’è sempre molta interpretazione da parte della guida nel decidere se scendere di qua o di là, se uscire o meno. La principale preoccupazione di noi guide deve essere la sicurezza, ma occorre anche assecondare la voglia del cliente di vivere una giornata di divertimento».
I grandi nomi dell’alpinismo sono quasi tutti maschili: com’è la situazione oggi per le donne?
«C’è una preponderanza maschile, certo, ma negli ultimi anni la situazione sta un po’ cambiando. Conosco sempre più ragazze che vanno in montagna, che decidono di diventare guide. Per arrivarci serve grande coraggio anche da parte nostra perché il contesto è comunque prevalentemente maschile. Le donne che lo fanno sono molto in gamba: difficilmente mi capita di incontrare qualcuna che non stimi, sento che in loro c’è grande forza di volontà. Il nostro esempio, quello di noi già presenti in questo mondo, contribuisce a ridurre la soggezione nelle generazioni future decise ad avventurarsi su tale strada. Va detto che in alcuni casi ci costruiamo dei castelli e ci chiudiamo dentro; in realtà talvolta siamo avvantaggiate perché siamo poche e diventiamo più visibili».
Lei è stata in Patagonia, ha aperto nuove vie in Alaska, ha tentato la cima del K2: come sceglie le vette da affrontare?
«La scelta è sempre diversa; a volte faccio due, tre scelte che sono una a sostegno dell’altra. Mi dedico a un progetto su una determinata via di roccia perché la stagione successiva ho intenzione di andare su un’ altra parete più difficile. C’è un obiettivo più grande e tanti altri obiettivi minori che mi porteranno ad esso. Ci sono tante montagne che mi piacerebbe scalare per la loro bellezza, alcune iconiche per un alpinista».
Tipo? Le tre sul suo podio.
«Asgard, isola di Baffin in Groenlandia, la prima montagna di cui mi sono innamorata. Poi il Cerro Torre in Patagonia e l’Alpamayo in Perù che è talmente bella da farci un quadro e restare in ammirazione».
Come si prepara?
«Dipende dagli obiettivi. Faccio allenamento costante per l’arrampicata perché è la disciplina che mi piace più e perché appena molli un po’ perdi molto, per cui serve tanta costanza. E poi a seconda del progetto, associo il tipo di allenamento necessario. Ora, per esempio, sono in Spagna per fare arrampicata sportiva, per scalare. È un continuo on e off, a seconda di quello che serve».
Se le nominano l’Hillary Step la prima cosa che le viene in mente è la cima dell’Everest ormai prossima o il rischio tragedia per il sovraffollamento delle spedizioni commerciali?
«Il secondo aspetto, certamente. E non tanto perché mi piaccia concentrarmi sulle tragedie dell’alta quota, anzi: ci sarebbero tante esperienze belle da raccontare invece degli incidenti. Nel caso degli Ottomila penso però che la situazione sia molto problematica. L’affollamento è legato al modo in cui siamo arrivati a scalarli, con l’uso dell’ossigeno supplementare, con guide che ti supportano in tutto e per tutto nella salita per cui, anche se non hai alcuna capacità alpinistica, lo puoi fare. Da un lato penso che è bello che la montagna sia accessibile a tutti, ma dall’altro dico che non è necessario. Tutti possono andare a sdraiarsi in un prato e godersi l’aria aperta, ma non è vero che tutti devono salire sugli Ottomila. Ci vai se è il tuo sogno, se sei preparato tecnicamente e fisicamente, se hai sviluppato l’autonomia per affrontare la salita anche da solo nell’eventualità in cui succeda qualcosa. Stiamo arrivando a un punto in cui siamo lontani anni luce da questa situazione, tutto è diventato un business. Alla fine, anche se non sei preparato, basta avere 50 mila euro da sganciare all’agenzia e qualcuno ti porterà su».
Lei ha un’agenzia che organizza spedizioni: c’è una selezione dei partecipanti per evitare che salgano gli inesperti?
«Non abbiamo mai organizzato spedizioni commerciali sugli Ottomila. Ma quotidianamente riceviamo richieste per altre salite da parte di persone che non conosciamo. Per cui dobbiamo capire se la salita sia sostenibile per quella persona; se non lo è cerchiamo di suggerire un percorso per arrivarci. Se il cliente insiste, allora ci proviamo e poi magari capita di ritirarsi».
Dolomiti venete, qual è la scalata per lei più affascinante?
«La Sud della Marmolada, la “via attraverso il pesce”. L’ambiente è spettacolare, la fama la precede. E poi le Pale di San Lucano nell’Agordino che conoscono in pochi».
Ma perché nonostante il fascino delle Dolomiti, ha preferito Chamonix per viverci?
«Abito a Chamonix, ma in estate torno sempre sulle Dolomiti. Il fatto è che lì tutte le attività che mi servono sono a portata di mano, non devo guidare su e giù per i passi. È poi c’è una mentalità molto aperta, pronta ad accogliere chiunque. Inoltre c’è forte richiesta lavorativa».
Overtourism da una parte e spopolamento dall’altra: la sua ricetta per salvare le nostre montagne.
«La soluzione non ce l’ho. Però noi guide potremmo riuscire a sfruttare maggiormente la bassa stagione. In questo modo le persone potrebbero fruire della montagna anche in altri periodi dell’anno. Però è necessario un sistema funzionante: se un turista viene in bassa stagione deve trovare attivi anche i servizi».
Etica e montagna. Bonatti o Compagnoni e Lacedelli?
«Senza alcun dubbio Bonatti, è stato un grande esempio. Quanto successo sul K2 è lo spunto per dire che in montagna le cose non le fa una persona sola: ci sono sempre gli altri che ti supportano. Pensare che non solo non gli è stato riconosciuto il supporto che ha fornito, ma che è stato addirittura rinnegato perché gli altri due volevano prendersi i meriti, ecco, questo è un atto di viltà assoluto. La montagna ti mette a nudo e dice chi sei veramente. È il messaggio per dire che bisogna essere sinceri: non ha senso inventarsi le proprie versioni delle cose. Stai mentendo a te stesso e i nodi prima o poi verranno al pettine. E questo anche se a Cortina continuano a venerare Lacedelli e Compagnoni».
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Chi è
Silvia Loreggian, 35 anni, padovana, laureata in Geografia e Turismo, è scalatrice e guida alpina. Si è trasferita a Chamonix dove conduce spedizioni in ambienti alpini, anche estremi. Nel corso della sua carriera ha aperto nuove vie alpinistiche in Alaska (via “Gold Rush” nelle Kichatna Mountains) e il Nepal.
Nel 2024 ha partecipato alla spedizione femminile Spedizione K2‑70, organizzata dal Club Alpino Italiano per il 70° anniversario della prima salita del K2, affrontando l’ascensione senza uso di ossigeno supplementare fino ai campi alti.
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