
Nascere mamma di gemelli prematuri: «Così ho imparato che la vita vince comunque»
Nella Giornata mondiale della Prematurità, il 17 novembre, il racconto di Vitalba D’Aguanno: la gravidanza desiderata, il parto cesareo improvviso a 31 settimane, due piccoli che sopravvivono e uno che non ce la fa. Il lutto e la paura, la fatica e la necessità di imparare ad amare quelle piccolissime creature. «Alle altre mamme dico: “Nessun senso di colpa”»
La prima volta che ha visto i suoi due bambini, nati prematuri a 31 settimane di gestazione, non si vergogna a confessare di non aver provato nulla. I macchinari a cui erano attaccati, le flebo, quei pannolini che parevano giganti per il loro chilo e poco più di peso. E nel cuore il lutto per il terzo gemellino che non ce l’aveva fatta. «Solo dopo dieci giorni dal parto, quando li ho potuti tenere in braccio per la prima volta, mi sono sentita realmente mamma. In quel momento sono nata anche io, con loro».
Vitalba D’Aguanno, 48 anni, mestrina d’adozione, architetto, danzatrice, coreografa ed insegnante di danza classica, otto anni fa ha vissuto l’esperienza di un parto prematuro. Oggi può abbracciare Lorenzo ed Emiliano, i suoi due bambini ora cresciuti sani e forti, e non passa giorno in cui non pensi a Giulio che non c’è più. L’esperienza di quaranta giorni in Terapia intensiva neonatale tra Padova e Mestre ha segnato la vita sua e del compagno. Ma ha dato anche dei frutti: Vitalba, con l’associazione “Una carezza per crescere” di Mestre, presta servizio come “mamma senior” nel reparto dove i piccolissimi lottano per il loro futuro.
Vitalba, come è andata la sua gravidanza?
«Sono rimasta incinta a 40 anni, una gravidanza molto desiderata. All’ecografia della decima settimana è risultato che i feti erano tre. Io felicissima, mio marito stava svenendo. Due gemelli, Lorenzo e Giulio, erano nello stesso sacco amniotico, mentre Emiliano era da solo. Subito ci sono stati esposti i rischi di una gravidanza trigemellare e ci è stata consigliata da un ginecologo la soppressione dei due feti omozigoti per ridurre i rischi per me e per i bambini. Questa cosa per me era inaccettabile. Facendo delle ricerche, abbiamo visto che il reparto di Ostetricia dell’Azienda Ospedale Università di Padova avrebbe potuto prendere in carico il mio caso. Il professor Erich Cosmi mi ha molto tranquillizzata e così abbiamo deciso di portare avanti la gravidanza con i tre feti. Sono stati mesi molto sereni. Era stato previsto il parto alla 32ª settimana, purtroppo invece alla 31ª mi hanno dovuto fare un cesareo di urgenza a Padova. Giulio si era attorcigliato sul suo cordone, non c’era più battito. E stava per morire anche Lorenzo, nel sacco con Giulio. Da quando mi hanno visitata a quando ho partorito sono passati 15 minuti. Era il 20 settembre 2017. Fino al giorno prima ero in sala prove a ballare».
Come ha vissuto quei momenti?
«Quando mi hanno detto che Giulio non ce l’aveva fatta non ho nemmeno pianto. Sul momento mi sono molto concentrata sui due bambini in vita: loro dovevano nascere. Per primo è nato Lorenzo, che stava soffrendo. Era asfittico, lo hanno dovuto rianimare. Non me l’hanno nemmeno mostrato. Poi è arrivato Emiliano, che stava complessivamente bene. Me l’hanno mostrato due volte, facendomi credere che fossero due bambini diversi, ma io avevo capito tutto. Giulio, invece, purtroppo non l’ho potuto vedere. E non mi hanno mai spiegato perché».
Quando ha potuto stare per la prima volta i bambini?
«Solo dopo 48 ore dal parto, è stato necessario che io mi riprendessi dal cesareo e che le condizioni di Lorenzo si stabilizzassero. Erano entrambi in Terapia intensiva neonatale. Non ho un ricordo piacevole di quella prima visita: ero molto distaccata, non li ho riconosciuti come miei figli. Tutto il contesto è complesso: si entra solo bardati, ci sono i rumori e gli allarmi delle macchine… A 24 ore dalla nascita, non essendo all’epoca ancora sposata con il padre dei miei figli, sono dovuta andare di persona all’ufficio Anagrafe in ospedale per attestare la morte di uno dei tre piccoli. E quando sono stata dimessa, sempre per lo stesso motivo sono stata costretta ad andare dalle onoranze funebri per firmare i moduli per l’organizzazione del funerale. Uno strazio imposto dalla burocrazia».
Quanto è importante il supporto emotivo per i genitori dei bambini prematuri?
«Qualunque madre dovrebbe avere un supporto emotivo, non è scontato che quando nasce un figlio ci sia sempre e solo felicità. L’esperienza in Terapia intensiva pediatrica a Padova mi aveva incattivita. In quei primi dieci giorni di vita dei miei figli non ero materna, mi sentivo proprio brutta dentro».
Ricorda quando ha avuto la sensazione di essere realmente mamma?
«Appena siamo arrivati all’ospedale di Mestre da Padova, siamo stati accolti dallo staff. I bambini sono stati presi in carico e me li hanno subito messi in braccio con la tecnica della marsupioterapia (il contatto pelle a pelle prolungato tra un neonato e i suoi genitori, simulando la protezione di un marsupio, ndr). Questa proposta inaspettata mi ha fatto completamente cambiare la prospettiva, in quel momento mi sono sentita mamma. E’ stato come se i miei figli fossero nati quel giorno. Mi sono riconnessa con me stessa, con la maternità e con i bambini che da quel momento ho cominciato a riconoscere come veramente figli miei, non come corpi estranei che in qualche modo vengono assegnati. Quando i miei bambini sono nati, non ho gioito. Ma dopo questo avvicinamento si è smosso qualcosa. E in reparto abbiamo voluto festeggiare il loro primo mese di vita come fosse la nascita».

Cosa c’è nel cuore di una mamma ogni sera in cui si lasciano i bimbi ricoverati in ospedale per tornare a casa?
«Lorenzo ed Emiliano hanno trascorso un mese in Terapia intensiva neonatale a Mestre. E’ stata un’esperienza molto bella, nonostante tutto. Ma anche un mese di molte ansie, di timore che potesse arrivare una telefonata dal reparto, di rumori delle macchine a cui erano attaccati i bambini che risuonavano nelle orecchie anche dopo ore. Sapevo però che i bambini erano coccolati, come fossero in una sorta di prima famiglia. Il fatto che loro fossero in ospedale mi ha permesso anche di avere qualche momento per me, per leccarmi le ferite lasciate da quell’esperienza».
La madre di un prematuro vive il senso di colpa di non essere riuscita a portare a termine la gravidanza?
«Nel mio caso no perché sapevo già che la gravidanza non sarebbe arrivata oltre la 32ª settimana di gestazione. Poi in realtà sono nati ancora prima. Ero quindi preparata riguardo all'idea che nascessero prematuri, ma non a ciò che comporta la prematurità. Ero anche cosciente della possibilità di poter perdere uno o più figli, anche se la mia mente eliminava questa evenienza».
I neo genitori sono quindi impreparati nell’affrontare la prematurità?
«Il problema secondo me sta nei corsi preparto, che come è giusto devono portare la madre a vivere serenamente la gravidanza. Ma d’altro canto le stesse madri non sono sufficientemente informate di quelli che potrebbero essere gli incidenti di percorso. Se le donne fossero più consapevoli, probabilmente vivrebbero con meno stress questa questa esperienza, così come quella ben più frequente del cesareo. Davvero si devono illudere le mamme che sempre tutto vada bene? Poi ci si stupisce delle depressioni post partum. La realtà invece è quella che, dopo il parto, le mamme possono anche stare male, non accettare subito il figlio quando nasce e tante altre cose di cui non si parla».
Dopo la dimissione, un bambino prematuro deve seguire un particolare percorso medico?
«Certo, esiste un percorso di follow-up con visite e controlli da parte di una gamma di specialisti a seconda del bambino, tra cui il neuropsichiatra, il fisioterapista, il logopedista, lo psicologo».
I suoi figli sanno che nella pancia della mamma erano in tre?
«Abbiamo cresciuto Lorenzo ed Emiliano nella consapevolezza che c’era con loro anche Giulio. Tutte le settimane andiamo in cimitero a portargli un fiore. Anche nei disegni della famiglia c’è sempre Giulio, magari messo un po’ più in alto delle altre persone e mai colorato. Sono felice perché, almeno sinora, sono riuscita a non trasmettere a Lorenzo ed Emiliano il mio grande dolore, che c’è e per sempre ci sarà, ma a far vivere loro questo lutto con serenità».
Ha mai avuto la sensazione di non farcela?
«Sì, anche ora. E’ una sensazione credo normale in presenza di un neonato, se è prematuro ancora di più. Il senso di inadeguatezza per me è stato costante. Sono riuscita a sopravvivere grazie al supporto di mio marito e al fatto che abbiamo sempre cercato di parlare dei nostri problemi con professionisti, cercando un consiglio di qualità al di fuori della coppia».
Quale il ruolo del papà?
«Nel sostegno alla donna la presenza del papà non è scontata: dipende dagli equilibri della coppia, dall’atteggiamento della donna rispetto alla gravidanza, da quanto lei si senta artefice unica di questo evento tanto da escludere l’uomo da questo processo. Per me è stato una presenza costante e fondamentale prima e durante la gravidanza e poi nella gestione dei bambini. La partecipazione dei genitori è fondamentale, devono volerlo entrambi ma anche la madre deve lasciare spazio».
Questo percorso di prematurità le ha lasciato qualcosa di buono?
«Mi ha lasciato tanto di buono, ma l'ho scelto. Quando si vivono esperienze così forti, si arriva ad un certo punto in cui ci si chiede chi si voglia essere e come affrontare questi problemi. Io ho vissuto la cattiveria, la rabbia, quella sensazione che tutti fossero in qualche modo in debito con me perché mi era successo qualcosa di più grande. Mi sono chiesta cosa volessi fare di questa esperienza e ho scelto di avvicinarmi di più alle persone e di cercare di ascoltarle meglio».
Ha potuto mettere a frutto la sua esperienza?
«Quando sono uscita dalla Terapia intensiva neonatale, ho sentito il bisogno di dover fare qualcosa di questa mia esperienza. Dopo un anno sono entrata a far parte dell’associazione “Una carezza per crescere” che lavora fianco a fianco con il reparto. Mi occupo di alcuni progetti tra cui “Genitori per genitori”, una attività di supporto e sostegno ai genitori dei piccoli ricoverati. Quando sei lì con il tuo bambino pensi che non crescerà mai, che resterà sempre piccolo e più indietro degli altri. Lo scambio alla pari con altri genitori che hanno già vissuto la prematurità serve ad avere una prospettiva futura a lungo termine, con leggerezza».
Un messaggio alla mamma di un bimbo prematuro.
«Non ascoltare i sensi di colpa, accettarsi per quello che si è, non aver paura di sbagliare perché una mamma cresce con il suo bambino. E chiedere aiuto, non siamo dei marziani».
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