Petra Reski: «Ho raccontato l’Italia e ho scelto di viverci. È bellissima e difficile»
La reporter e scrittrice tedesca abita a Venezia: «I politici considerano la città solo come una gallina dalle uova d’oro, invece è uno spazio vitale da proteggere». E sulle mafie in Veneto: «Il territorio non è sano, si indaghi nel turismo»

Petra Reski, lei ha iniziato a raccontare l’Italia come giornalista e scrittrice. Cosa ha visto per convincerla a vivere qui, passando da spettatrice a protagonista?
«Fin dall’inizio mi sono sentita a mio agio in Italia perché mi ricordava la mia famiglia della Prussia orientale, una famiglia molto numerosa che amava festeggiare ed era divertente, ma che poteva essere anche molto ingiusta. Insomma la mia famiglia era molto bella, ma al contempo poteva rivelarsi terrificante: e così era l’Italia per me con persone dello spessore di Falcone e Borsellino da una parte e dall’altra Andreotti e Berlusconi. Devo dire che mi sono sentita molto più a mio agio in Italia che in Germania».
E perché ha scelto proprio Venezia, così complicata per viverci?
«Non ho scelto Venezia; mi sono imbattuta in un veneziano di cui mi sono innamorata. E come tutti i veneziani lui non può sopravvivere fuori dalla sua città: se apre la finestra e fuori non vede l’acqua muore. Quindi non avevo scelta. Poi mi sono innamorata anche della città, e chi non se ne innamora? Non trovo troppo difficile viverci, forse perché il mio lavoro è quello di scrivere e da questo punto di vista sono una privilegiata. Venezia offre possibilità che altre città non danno: permette di andare a piedi, di uscire in barca... L’altro giorno c’era una bellissima giornata di sole e ho visto il delfino di cui si sta parlando, ero davvero felice. Di più non ci si può aspettare. Certo, poi, la vita a Venezia diventa difficile perché non ci sono più case, perché non c’è lavoro oltre a quello con il turismo».
Nel suo libro “Venezia atto finale” lei pone l’accento sulla monocultura del turismo che sta distruggendo la città. Processo irreversibile o esiste una via d’uscita?
«La soluzione ci sarebbe se ci fossero politici che non pensano solo alle elezioni, ma anche al futuro. Nei quasi 40 anni che vivo qui, però, non ne ho ancora incontrato uno che pensa “oltre”. Venezia non è vista come uno spazio vitale da proteggere, ma come una gallina dalle uova d’oro; uova non per i veneziani, ma per la terraferma, per il Veneto, per l’Italia. Tutti guadagnano con Venezia, guadagnano con il valore aggiunto di una città tenuta in vita da una manciata di veneziani. Dopo la crisi del Coronoavirus speravamo tanto che qualcosa cambiasse, ma è presto diventato chiaro che questo sindaco avrebbe fatto di tutto per mantenere la monocultura turistica».
Non ha speranze di cambiamento?
«La speranza ci sarebbe se ci fosse la volontà politica, ma io non la vedo. È questo il problema. Vedo solo grande cinismo».
I suoi lavori giornalistici e letterari hanno avuto per tema la mafia: neppure il Veneto ne é immune, si pensi alle inchieste nel Veneziano e nel Veronese. Questo territorio ha gli anticorpi per mantenersi sano o ha bisogno di un vaccino?
«Non considero il territorio né immune né sano, vedo un sacco di cose in comune tra il nord Italia, Lombardia e Veneto, e la Germania dove per decenni hanno negato l’esistenza della mafia e quando non si è più potuto negarla si è cercato di minimizzarla. È quello che sta succedendo anche in Veneto. A Venezia ci sono molti ristoranti di cui si sa che i soldi investiti sono delle cosche albanesi o di altre mafie. Sappiamo tutti quanto guadagna la mafia con gli investimenti nel turismo. Vorrei tanto ci fosse più consapevolezza e da questo punto di vista il nord Italia potrebbe imparare dal Sud. In Sicilia, perlomeno, la consapevolezza è più grande che al Nord dove tutti si credono immuni, come appunto succede anche in Germania. I cittadini del Sud sono più sensibili, al Nord invece è più facile negare».
Questo per la società civile, e per quanto riguarda la magistratura? Ci sono secondo lei le inchieste o c’è ancora molto da esplorare?
«Secondo me c’è ancora molto da esplorare. A Venezia finora non ho visto molto impegno come al Sud perché qui i politici vengono “presi con le pinze”, in Sicilia non era così. Vorrei che anche qui ci fosse meno reticenza a considerare il coinvolgimento dei politici. Ricordiamoci che i reati di mafia non sono commessi dal mafioso brutto e cattivo da solo, ma che c’è sempre il coinvolgimento di politici, imprenditori e - appunto - mafiosi. Se qui al Nord i politici non vengono considerati, allora abbiamo delle lacune».
Sopravvive all’estero lo stereotipo dell’italiano mafioso?
«No, anzi. L’immagine dell’italiano all’estero, in Germania in particolare, è molto positiva. Forse anche troppo (ride, ndr). Sopravvive sempre l’immagine un po’ folcloristica, ma la gran parte dei tedeschi ha capito che loro stessi hanno un grande problema con la mafia e non si può applicare questo cliché con gli italiani; in Germania c’è il detto per cui “ bisogna toccarsi il proprio naso”. Poi si dice anche che in Italia si mangia bene e che qui c è grande una gioia di vita, ma non corrisponde neppure questo alla quotidianità italiana, è un altro cliché esagerato».
Uno dei temi caldi di questi giorni è stato il caso Venezi alla Fenice. Come lo racconterebbe ai tedeschi?
«Nessuno fuori dall’Italia può capire come sia possibile distruggere la reputazione di un teatro prestigioso quale è la Fenice, con il suo valore artistico e con la sua storia; distruggerlo facendo scelte allucinanti».
Fra pochi giorni in Veneto si voterà per le Regionali. Ci sono a suo avviso dei temi che i candidati hanno trascurato?
«L’ambiente, prima di tutto. Penso a Venezia, alla sua laguna che è fondamentale per la sopravvivenza della città. L’impegno per l’ambiente richiederebbe di opporci alla monocultura del turismo, ma non vedo nessuno che lo faccia, a parte alcune liste civiche. Chi punta solo sulla monocultura turistica trascura i cittadini, è chiaro. Ed è un trascurare in tutti i sensi, anche nella politica sanitaria che punta al profitto».
A proposito di ambiente, il Mose ha aiutato a risolvere i problemi?
«È come si prendesse un medicinale che toglie il dolore, ma che non cura. Il Mose toglie l’acqua alta ma non è una soluzione a lungo andare. L’erosione della laguna è dovuta ai canali, ora vogliono scavare il canale Vittorio Emanuele, e questa per me è una cosa di un cinismo per cui mi mancano le parole. Venezia non può sopravvivere se non viene chiuso il porto per le Grandi navi. E dunque, sottolineo, il Mose non è la soluzione a lungo andare».
Goethe nel suo “Viaggio in Italia” raccontò un’Italia piena di armonia. Com’è il viaggio oggi della sua conterranea Petra Reski?
«Viaggiando in Italia, lui puntava sui suoi sentimenti, sull’amore; ha molto apprezzato la disponibilità delle donne italiane, cosa che ha senza dubbio influito sul suo giudizio. Il suo era un viaggio interiore e artistico, molto diverso dal mio: io mi sono sempre stata interessata alle persone, alla vita sociale. Ho trovato qui tante persone a cui mi sono ispirata, persone che mi hanno spinto a chiedere la cittadinanza. Come Salvatore Borsellino o come Nino Di Matteo».
***
Chi è
Petra Reski è una giornalista e scrittrice nata a Kamen, in Germania. Dopo aver studiato lingue romanze, si è formata alla scuola di giornalismo Henri Nannen Schule. Dal 1988 ha lavorato alla redazione esteri del settimanale Stern e ha collaborato con testate come Die Zeit, Geo, Focus e Merian.
Vive in Italia dal 1989 dove si è dedicata alle inchieste sulla mafia. È autrice di numerosi libri, tra cui Santa Mafia. L’ultimo: “Diventare italiana. L’avventura sentimentale e politica di una tedesca nel Belpaese” (Zolfo Editore). Ha ricevuto vari premi; è considerata una delle voci più autorevoli del giornalismo antimafia europeo.
Riproduzione riservata © il Nord Est






