Una mamma e il suo tumore: «Ho scritto una favola per raccontare il cancro alle mie bambine»
Elisa Sommavilla, quarantenne veronese, ha affrontato un cancro al seno da cui è guarita. "Storia di una cellula impazzita" è il libro che ha scritto e illustrato per spiegare alle figlie il percorso tra intervento e terapie: «Un aiuto per tutte le madri che non sanno come parlare della malattia: abbiate coraggio e siate sincere»

«E adesso come lo dico alle mie figlie?». Il pensiero non poteva che essere quello, un attimo dopo aver chiuso la porta dell’ambulatorio dove il medico aveva comunicato la diagnosi. Già, come spiegare a tre bambine che la mamma ha un tumore al seno, che deve essere operata velocemente e che dopo dovrà sottoporsi a delle terapie e che quindi, inevitabilmente, la vita di tutta la famiglia verrà sconvolta da questo tsunami?
Le parole dette a voce a volte non sono sufficienti. Elisa Sommavilla ha deciso di usare tre armi potentissime: la scrittura, il disegno, la sincerità.
E così il percorso della malattia, durato quasi un anno e concluso a fine marzo 2025 con la guarigione, è diventato una favola che lei, mamma veronese di 40 anni, ingegnere edile, ha scritto e illustrato assieme alle sue bambine che allora avevano dieci anni, otto e tre e mezzo. Un viaggio dall’intervento alla Breast Unit dell’ospedale di San Bonifacio alle terapie, fino alla remissione del cancro, con la speranza che un domani la medicina faccia il miracolo.
Un modo nuovo per stare con le proprie figlie, soprattutto nel mezzo delle sedute di chemioterapia quando mancano le forze. Un modo per accompagnarle passo passo verso la ritrovata serenità.
Una favola che è diventata un libro, "Storia di una cellula impazzita” (Il Prato Edizioni), disponibile in libreria e su Amazon. Il tumore ha un nome: si chiama Maddalena, che vive nel corpo di Viola. Il ricavato delle vendite verrà devoluto ad Andos, Associazione nazionale donne operate al seno.
«Questo libro è stato una via parallela per sconfiggere la parte infida del tumore, quella che ti oscura il cuore», dice Elisa presentando il suo lavoro.
Elisa, come ha scoperto il tumore?
«A marzo 2024 ho iniziato ad avere perdite scure dal seno, sembrava siero. Giocavo a pallavolo, inizialmente pensavo a una botta o alla coda dell’allattamento. Ne ho parlato con una collega del Comune di Verona, dove lavoro. Lei aveva avuto un tumore al seno e mi ha consigliato di fare una mammografia. Dal primo esame si vedeva una massa come fosse un’ombra. Poteva sembrare un nodulo. Approfondendo con altri esami, i medici della Breast Unit dell’ospedale di San Bonifacio hanno scoperto che i tumori non erano uno, bensì due. E in mezzo ai due tumori c’era ancora una massa indefinita che con l’esame istologico si è scoperto essere altri sette tumori che si stavano generando. Uno dei tumori era di grado tre su quattro, quindi aggressivo e con un indice di riproduzione molto veloce, tanto che aveva attaccato pure un linfonodo».
Ricorda il giorno in cui ha avuto la diagnosi?
«I dottori mi avevano convocata, sono andata con mio marito. ‘C’è un tumore, ma sicuramente ti tiriamo fuori’, ricordo ancora le loro parole. Io ho risposto ‘Vabbè, ok’. Lui piangeva. Gli ho dato una pacca sulle spalle e gli ho detto di non preoccuparsi, che ce dovevamo fare».
Il primo pensiero, una volta saputo del tumore?
«Il primo pensiero è stato per le mie tre bambine, il mio cuore è lì. Sono una mamma molto presente nel loro quotidiano: dovevamo capire come gestire le mie assenze, la malattia, le mie difficoltà. Con mio marito abbiamo chiesto aiuto allo psicologo della Breast Unit che ci ha consigliato solo una cosa: la sincerità con le piccole. Ci ha esortati ad essere semplici e diretti, confortandoci che le nostre figlie avrebbero capito e, in un secondo momento, anche aiutato ad affrontare la situazione. E così abbiamo detto loro intanto dell’operazione di svuotamento e ricostruzione del seno che ho affrontato il 5 giugno 2024».
Poi con i risultati dell’esame istologico in mano sono iniziate le terapie…
«Quattro chemioterapie rosse e dodici bianche, ossia quattro molto pesanti ogni tre settimane e poi le restanti, una alla settimana, meno impattanti. E poi la radioterapia. A questo punto ho dovuto fare un altro passo con le mie figlie, spiegando loro che la mamma doveva fare queste cure, che avrebbe perso i capelli, che spesso sarebbe stata molto stanca…».
Come è nata l’idea del libro?
«Le mie figlie hanno iniziato subito a fare tantissime domande. Mi chiedevano come si forma un tumore, quante tipologie ci sono, se il mio fosse brutto o no. Nel momento in cui ho affrontato la chemioterapia ho iniziato a disegnare con loro e intanto io scrivevo per buttare fuori quello che avevo dentro. E così sono nate Viola e Maddalena».
Chi sono Viola e Maddalena?
«Il libro è raccontato dal punto di vista della cellula Maddalena che vive nel corpo di Viola. Dopo una visita, Viola scopre che Maddalena è una cellula impazzita e che per questo dovrà affrontare un intervento, la chemioterapia e la radioterapia. Viola è triste quando con l’intervento le viene asportata una parte di lei, così come ero triste io quando sono stata operata. Durante la chemio e poi la radio, la cellula racconta dal di dentro l’effetto delle terapie. Maddalena capisce però che solo andandosene potrà consentire a Viola di stare meglio, così decide di volare sulla nuvoletta delle cellule e da lì continuare a guardare Viola felice, auspicando che presto la medicina trovi una cura meno invasiva per il cancro».

Come ha coinvolto le figlie nella creazione del libro?
«Io scrivevo e illustravo, la figlia grande e quella mezzana leggevano, suggerivano, mi chiedevano di fare altri disegni. Lo abbiamo fatto durante il periodo delle chemioterapie, soprattutto tra una rossa e l’altra, nei giorni finali del periodo in cui mi sentivo meglio. Ci faceva stare bene. Me lo aveva consigliato anche la collega che mi aveva convinto mesi prima a fare la mammografia: programmarsi qualcosa di bello nella settimana prima della successiva chemioterapia rossa, così la mente si proietta in avanti, oltre l'ostacolo. Avere qualcosa di nuovo che stava crescendo nelle mie mani mi ha aiutata tantissimo».
Perché ha deciso di pubblicarlo?
«Io mi sono trovata nella situazione di dover dare delle risposte alle domande delle mie figlie. Ho pensato con mio marito che questo libro avrebbe potuto aiutare anche altre mamme nella stessa situazione per raccontare ai bambini la verità, con sincerità».
Quanto ha contato la famiglia nel suo percorso di malattia?
«E’ stata la mia protezione, sono stata molto fortunata. Nei giorni in cui stavo bene tra una chemio e l’altra sono riuscita ad andare al mare con la mia famiglia, anche con i miei genitori che vivono a Moena in Trentino e non si muovono mai. In quel periodo ho iniziato a perdere i capelli. Ma essere con loro è stato bellissimo».
Come hanno reagito le bambine ai suoi cambiamenti fisici?
«Avevo spiegato loro della caduta dei capelli. Ma un conto è dirlo a parole, un conto è vedere la mamma calva e gonfia a causa delle medicine. Ricordo un giorno in cui la piccola mi ha detto di volermi dire un segreto all’orecchio: ‘Mamma, sei bellissima!’. Sulla mia testa calva a volte ci ridevamo anche sopra, le bambine dicevano che ero diventata come i papà che sono senza capelli. La bimba più grande, invece, ha dovuto gestire la rabbia interiore: non capiva perché tutto ciò fosse successo proprio alla sua mamma. E ora è super orgogliosa di aver contribuito a scrivere il libro».
Gli ultimi dati della Fondazione Gimbe dicono che l’adesione alla prevenzione oncologica in Italia è ancora bassissima, nonostante il Nord Est si distingua come zona virtuosa. Cosa dice a chi sceglie di non partecipare agli screening?
«Capisco tutte le difficoltà organizzative, ma è fondamentale investire poche decine di minuti per la propria salute. Non è tempo buttato via, ma tempo che permette di vivere meglio il proprio futuro, per sé e per la famiglia. Abbiamo la fortuna di avere un sistema sanitario di eccellenza».
Ha mai avuto paura di non farcela?
«Avevo questo pensiero da qualche parte nella testa ma ho sempre cercato di non approfondirlo, come avendoci messo un paravento davanti. Non poteva non andare bene. Mio marito dice che il mio istinto di autoconservazione è molto basso. Le dottoresse il primo giorno mi hanno detto che mi avrebbero tirata fuori. Mi è bastata questa frase nella testa. Ho avuto sempre fiducia nella persone, nel sistema sanitario, nel percorso. Sono abbastanza razionale: ho cercato di accogliere quello che mi è successo, sapendo di avere vicino a me le persone che mi vogliono bene. Per loro sono rimasta sempre la mamma, la moglie, la figlia, la nuora, nonostante tutto».
E momenti di sconforto?
«Quelli sì. Sono stata parecchio male nei dieci giorni successivi alle chemioterapie forti. A volte il tempo sembrava non passare mai. E ricordo ancora la prima volta che mi sono guardata allo specchio dopo l’operazione. Ho visto la cicatrice e ho pianto. Quella è la mia cicatrice di guerra».
Cosa pensa di aver insegnato alle sue bambine?
«Credo di aver trasmesso loro che le cose brutte possono succedere a tutti ma che bisogna affrontarle. Quando si gestisce con razionalità un problema, si è già a metà dell’opera».
Un pensiero per le mamme che si trovano a vivere il suo stesso percorso.
«Dico loro di non preoccuparsi, le Breast Unit della nostra sanità sono delle pietre preziose che non dobbiamo dare per scontato. E di parlare ai figli con sincerità. Non sarà un percorso facile, ma passa. E poi si torna alla normalità. E’ solo questione di avere un po’ di pazienza e di adattamento. Cambiano un po’ le cose, ma poi tornano come prima. Forse anche migliorano».
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