Book Week Gorizia, Manuela Nicolosi: la mia avventura tra calcio e management

Venerdì al festival l’arbitra che ha raggiunto il vertice presenta il libro “Decido io. Dal sogno alla Supercoppa”

Alex Pessotto
Manuela Nicolosi allo Sport Business Forum di Belluno
Manuela Nicolosi allo Sport Business Forum di Belluno

Storia originale, e storia vincente, quella di Manuela Nicolosi, due lauree in Business e Management, oltre a un master in finanza. Fin qui, tuttavia, il suo curriculum si potrebbe paragonare a quello di altri che, sui libri, trascorrono molto tempo. Il bello è che Manuela è andata oltre: è stato il primo fischietto italiano a occuparsi di una finale della Coppa del mondo femminile, a essere selezionata alle Olimpiadi e a più tornei Fifa.

Inoltre, ha fatto parte della prima terna femminile che ha arbitrato una finale europea maschile, la Supercoppa tra Liverpool e Chelsea nel 2019. In “Decido io. Dal sogno alla Supercoppa: il coraggio di rompere gli schemi” (Roi edizioni, pagg. 176, euro 19,90) parla della sua avventura nel mondo del calcio. Come se non bastasse, su Instagram ha 175 mila follower: è un volto televisivo di successo e sarà fra i protagonisti della Book Week, evento organizzato dal gruppo Nord Est Multimedia (che edita anche questo quotidiano) con il sostegno del Comune di Gorizia: da venerdì a domenica, nella città isontina, saranno ventuno gli autori coinvolti nella rassegna.

Manuela è stata invitata proprio nella giornata inaugurale: alle 19, in piazza Sant’Antonio, quando dialogherà con il giornalista del Piccolo Francesco Fain.

 

Un dettaglio della copertina del libro
Un dettaglio della copertina del libro

Quando ha scelto di diventare arbitro?

«Avevo una grande passione per il calcio: volevo praticarlo, ma questa possibilità, purtroppo, non mi è stata data dalla mia famiglia, per la quale era cosa da maschi. Ho allora provato con altri sport. A quindici anni, mio cugino, che era arbitro, mi ha detto che avrei potuto seguire le sue orme, mentre in precedenza, da regolamento interno, era vietato. Ho allora deciso di provarci, di essere una delle prime. Non avrei corso dietro un pallone, non avrei fatto parte di una squadra, ma almeno avrei indossato gli scarpini. Ecco, tutto è nato così. Anche come una sfida. Con gli obiettivi che son diventati sempre più ambiziosi».

Cos’ha rappresentato quel no della sua famiglia?

«Il primo episodio in cui ho cominciato a capire che se eri un maschio potevi fare certe cose e se eri una femmina no. Quella decisione non mi era piaciuta affatto: non ne capivo il motivo. Perché non potevo almeno provarci? Allora, quando hanno aperto la possibilità alle donne di fare l’arbitro ho voluto tentare per dimostrare a me stessa che potevo riuscirci anch’io pur essendo una femmina».

Preferisce essere chiamata arbitro o arbitra?

«Arbitra».

Perché?

«Fino a qualche anno fa l’arbitro poteva essere solo un uomo, mentre ora il sostantivo si può anche declinare al femminile».

Perché “Decido io”?

«Il titolo nasce dalla funzione di un arbitro, che è quella di decidere. E io ho quindi passato la maggior parte della mia vita a prender decisioni. Ciò mi ha anche permesso di imparare a prenderle ogni giorno. Il messaggio che allora il libro vuol dare è di decidere della propria vita».

Quanto maschilismo, quanto sessismo ha trovato nei suoi confronti?

«L’ho trovato e lo trovo perché esistevano ed esistono pregiudizi per i quali una donna non capisce nulla di calcio. Contro questi pregiudizi ho dovuto e devo lottare per farmi rispettare come arbitra e come donna. Così, quando ho cominciato ad arbitrare, ero l’unica ragazza in campo tra giocatori uomini, dirigenti uomini e un pubblico prevalentemente composto da uomini. Quando arrivavo, erano in molti che ridevano. Ora, la presenza femminile nel mondo del calcio è maggiore, ma i pregiudizi esistono sempre, come si vede in serie A che ci sono solo 3 arbitre su 150 e a livello direttivo non c’è nemmeno una donna».

Cosa le ha fatto più male?

«Ricevere dagli spalti pesanti insulti, mentre ero in campo per fare il mio lavoro, mi ha fatto molto male, soprattutto agli inizi: ero giovane e dovevo crearmi una corazza. Poi, però, mi faceva altrettanto male quando gli osservatori, coloro che giudicano noi arbitri, come prima cosa ponevano l’accento sul fatto che fossi una donna; poi continuavano con le valutazioni. Si soffermavano innanzitutto sul genere, le mie competenze venivano dopo».

E con i calciatori come si è trovata?

«Occorre fare una differenza tra professionisti e non professionisti. I professionisti hanno una squadra, una struttura e quindi dimostrano un comportamento diverso. Inoltre, sanno chi sei. I non professionisti, invece, più volte hanno tentato di mettermi in difficoltà». —

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