Osimo cinquant’anni dopo, l’ambasciatore Verga: «Vidi da vicino la firma»
L’ambasciatore Daniele Verga ricorda la firma cinquant’anni dopo: «Ero testimone di una pagina di storia»

«Era un lunedì, me lo ricordo ancora. Fui mandato a Osimo in tutta fretta, come giovane addetto del servizio stampa del ministero degli Esteri. Mi dissero che dovevo organizzare la conferenza stampa per la firma di un accordo tra Italia e Jugoslavia».
Quello che l’ambasciatore Daniele Verga ancora non sapeva è che la sua carriera successiva avrebbe avuto molto a che fare con i Balcani, dal primo ruolo diplomatico a Belgrado (1977-1980) fino alla chiusura della carriera a Lubiana (2004-2008), in tempo per essere testimone dei risultati di quella distensione adriatica di cui Osimo fu un tassello fondamentale.
Che clima c’era quel giorno?
«Io del processo negoziale non sapevo nulla, ma ebbi modo di assistere alla firma tra i ministri Rumor e Minić. A cena ci fu un clima disteso e poi le delegazioni si diressero all’aeroporto di Falconara a prendere gli aerei speciali. Ma quello jugoslavo fece i capricci, non voleva accendersi. Rumor si offerse di accompagnare il gruppo a Belgrado, anche a costo di farci arrivare all’alba a Roma. Insomma c’era un’aria di amicizia, anche se poi per fortuna l’aereo jugoslavo si mise in moto (ride)».
Quale fu il senso del trattato?
«Osimo formalizzò una situazione consolidatasi di fatto sulla frontiera. Fu un passo per la distensione, collegato al trattato di Helsinki, di cui Osimo fu la prima applicazione pratica, perché a Helsinki solo pochi mesi prima si era stabilito di riconoscere i confini sanciti dopo la guerra e dare avvio a un nuovo clima di sicurezza e cooperazione internazionale nell’Europa della Guerra fredda. Con Osimo mettemmo da parte i timori dello scontro ideologico e avvicinammo un paese limitrofo, con cui avevamo scambi commerciali importanti e dove il socialismo dava molta più libertà di quanta se ne respirasse nel blocco sovietico».
Questa la percezione a Roma, ma Trieste si rivoltò. Foste sorpresi?
«Qui si torna alle vicende della guerra e dell’esodo giuliano dalmata. Eravamo a trent’anni soltanto dalla fine della guerra ed è naturale che negli ambienti locali ci fosse contrarietà. Forse si poteva fare meglio, ma con i se e i ma non si fa molto. C’era un’aria generale di distensione, un’atmosfera di nuovi rapporti in Europa, la volontà di creare un clima nuovo in una fase in cui nessuno avrebbe pensato di veder crollare 15 anni dopo il comunismo in tutti i paesi dell’Est».
Ma sugli indennizzi agli esuli e sulla parte economica si poteva fare di più…
«Gli indennizzi arrivarono anche se non diedero prezzo alla parte affettiva e al dolore provato dagli esuli. E non si fece nulla della Zona franca a cavallo del confine, questo è vero».
Come evolsero le relazioni italo-jugoslave?
«La Jugoslavia era protagonista fra i paesi non allineati e la distensione era già cominciata da qualche anno. Con Osimo migliorò. A Belgrado sono rimasto fino alla morte di Tito e in quei tre anni passarono i grandi leader italiani, come Cossiga e Forlani, oltre ai comandi militari. In Slovenia ho visto l’approdo di quel processo: l’entrata nell’Ue, Schengen, l’euro consolidarono i rapporti con l’Italia alla luce della condivisione dei valori europei. È stato un privilegio essere presente da ambasciatore alle celebrazioni per la caduta del confine a Gorizia».
E in mezzo che successe?
«Le iniziative del ministro De Michelis dopo la morte di Tito per mantenere un legame con la Jugoslavia e gli altri paesi socialisti. E poi l’Ince e Alpe Adria a curare i rapporti fino al riconoscimento di Slovenia e Croazia nel 1991. Ma mi piace ricordare anche i tempi più recenti, con il concerto dei tre presidenti e il grande momento vissuto con i presidenti Mattarella e Pahor sui luoghi della memoria. Oggi la frontiera è diventata non più segno di divisione, ma esempio di convivenza, tanto che non parliamo più neppure di minoranze ma di comunità nazionali, che sono un grande valore per i due paesi».
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