Premio Luchetta a Francesca Albanese, botta e risposta tra la Comunità ebraica e Paolo Rumiz
Il dibattito sulla consegna del premio alla relatrice speciale per l’Onu. La Comunità ebraica: «Difendiamo la nostra terra». Rumiz: «Massacrare non è un diritto». Cosa sta succedendo

Il premio speciale della Fondazione Luchetta assegnato quest’anno a Francesca Albanese, relatrice speciale per l’Onu, ha scatenato una polemica che vede come protagonisti la Comunità ebraica di Trieste e del Fvg, da un lato, e lo scrittore Paolo Rumiz dall’altro.
La Comunità ebraica di Trieste e del Fvg ha contestato per prima l’assegnazione a Albanese scrivendo alla Fondazione; Rumiz è poi intervenuto. Il dibattito sta continuando: di seguito riportiamo le controrepliche della Comunità e di Rumiz, con le rispettive posizioni.
Il premio, ricordiamo, è stato assegnato «per aver denunciato che quanto accadeva a Gaza e Cisgiordania si configurava crimine di genocidio». La consegna venerdì pomeriggio a partire dalle 17.30 si può seguire sul sito del Piccolo.
Le parole della Comunità ebraica
di Eliahu Alexander Meloni e Alessandro Salonichio*
Abbiamo letto con attenzione l’articolo “La pestilenza del nazionalismo che ha infettato anche Israele” di Paolo Rumiz in risposta alla “lettera aperta” che abbiamo indirizzato alla Fondazione Luchetta.
Prima di entrare nel merito, è necessario osservare che l’introduzione del sig. Paolo Rumiz risulta alquanto infelice: egli impiega infatti una retorica estremamente ambigua. Sostenere che il ritorno dell’antisemitismo sia dovuto anche (in parte?) al governo Netanyahu – che, piaccia o meno, rappresenta l’espressione legittima della democrazia israeliana – equivale a suggerire che l’antisemitismo, in ultima analisi, sia responsabilità degli ebrei stessi. Come se il fenomeno esistesse perché gli ebrei non si comportano “come dovrebbero”.
È precisamente questo il nucleo dell’intervento del sig. Rumiz, che tratteggia un sionismo e degli ebrei immaginari, i quali dovrebbero essere – secondo un’idea del tutto astratta – modelli di tolleranza verso i propri nemici. Peggio ancora: egli sembra ritenere che gli ebrei, e in particolare gli ebrei israeliani, debbano essere l’unico popolo al mondo a non avere un legame esclusivo con la propria terra, trasformandola invece in uno spazio “aperto”. In altre parole, gli ebrei non dovrebbero rivendicare alcun diritto su Israele.
È davvero possibile che il sig. Rumiz ignori la storia ebraica? È concepibile non sapere che il popolo e la terra condividono lo stesso nome: Israele?
La terra d’Israele, infatti, eredita il proprio nome dal popolo al quale fu promessa, e questa promessa ha legato e continua a legare indissolubilmente gli ebrei alla loro terra. Il ritorno a Zion non è un prodotto recente dei nazionalismi del XIX secolo, pur essendo in quel periodo sorto il movimento sionista; esso è inscritto nel giudaismo come barometro dell’integrità del popolo. Nel Pentateuco è scritto che il popolo d’Israele, quando percorre la via giusta, rimane sulla propria terra: il fatto che oggi la maggioranza degli ebrei viva in Israele è quindi un segno che il popolo procede nel cammino corretto.
Desideriamo ricordare al sig. Rumiz che il movimento sionista nacque anche sull’onda dell’affaire Dreyfus, frutto dell’antisemitismo più virulento, in cui uno degli argomenti più ricorrenti era che, se gli ebrei subivano persecuzioni, la colpa fosse comunque loro, poiché non ci si poteva “fidare” di loro.
Nel suo articolo ci viene inoltre rimproverato di accusare la signora Albanese senza prove. Anzitutto, si tratta di una lettera aperta e, per sua natura, deve essere sintetica. In secondo luogo, il sig. Rumiz finge di essere ingenuo o di non seguire la realtà dei fatti.
In agosto di quest’anno la signora Albanese dichiarava – cito: «Hamas è una forza politica che ha vinto le elezioni del 2005» (nda: da allora non si sono più tenute elezioni, il che la dice lunga sulla natura “democratica” di Hamas). E aggiungeva: «È fondamentale capire che quando si pensa ad Hamas, non si deve necessariamente pensare a tagliagole, persone armate fino ai denti o combattenti. Non è così».
Secondo Paolo Rumiz non si può affermare che sia una sostenitrice di Hamas; nondimeno, le sue parole parlano da sole.
A ciò si aggiunge che la signora Albanese continua a parlare di «genocidio». Al di là del fatto che non sembra conoscere il significato del termine – e pare che anche lui incontri qualche difficoltà in merito – ora che a Gaza possono entrare numerose organizzazioni internazionali, non sono state riscontrate fosse comuni, montagne di cadaveri o altri segni di massacri di massa. Anzi, il numero delle vittime è oggi oggetto di revisione, poiché proveniva esclusivamente da Hamas ed è stato diffuso senza alcuna verifica.
Dunque, almeno l’affermazione secondo cui la signora Albanese diffonde il falso e sostiene di fatto una narrazione funzionale alla propaganda di Hamas è un dato incontestabile. E quando ella corregge il sindaco di Reggio Emilia per aver ricordato gli ostaggi, che cos’è, sig. Rumiz, se non il tentativo di negare la loro condizione di vittime, lasciando intendere che le uniche vittime siano i palestinesi?
Cancellare il pogrom del 7 ottobre 2023 per costruire una narrazione vittimaria in cui solo i palestinesi sono vittime e i carnefici sono esclusivamente i soldati israeliani – dei quali si sottolinea immancabilmente che sono ebrei – significa capovolgere i fatti e, soprattutto, indulgere nella comoda retorica che dipinge gli israeliani “nazionalisti” come i nuovi nazisti e i palestinesi come i nuovi ebrei perseguitati.
Se questo non è antisemitismo, che cos’è?
La vera difficoltà nasce dal fatto che lei, sig. Rumiz, come molti altri sedicenti intellettuali, non conosce il popolo ebraico. Non lo vede per ciò che è, ma per ciò che immagina che debba essere. Voi vedete l’ebreo che vi compiace: l’ebreo buono, mite, capace di subire aggressioni antisemite; l’ebreo che rimane una brillante minoranza nella società, ma che ha comunque bisogno della magnanimità altrui per essere difeso.
L’ebreo che piace è l’ebreo della Shoah, l’ebreo perseguitato che dopo la persecuzione, con ammirevole resilienza, torna al suo posto di minoranza tollerata.
L’ebreo che difende la propria terra perché circondato da vicini che non esitano a invocarne la distruzione con lo slogan “Palestina libera dal mare al fiume” – che implica un nuovo genocidio degli ebrei – vicini che negano il diritto stesso di Israele a esistere (forse, sig. Rumiz, ha dimenticato i ripetuti rifiuti palestinesi di una convivenza pacifica), o la carta fondativa di Hamas, che afferma esplicitamente che la sua lotta terminerà solo con la scomparsa di Israele e degli ebrei... Ecco, quell’ebreo lì non vi piace.
Rivendichiamo dunque apertamente di non essere ebrei della Shoah, ma ebrei d’Israele. Non intendiamo aderire alla sua visione dell’ebreo immaginario, buono e rassegnato, che rinuncia ai propri diritti su una terra che gli appartiene. Ci dispiace deluderla.
Come Rabbino desidero aggiungere, a titolo personale, che nessuno le rivolgerà l’accusa di antisemitismo; tuttavia, al posto suo eviterei di indulgere in insinuazioni o diffamazioni fondate sul mio cognome: Lei non mi conosce.
Eviti anche di attribuire alla Comunità Ebraica un sostegno politico generalizzato al governo italiano: ciò che davvero conta per la nostra Comunità è il sostegno all’unico Stato ebraico esistente al mondo.
*Eliahu Alexander Meloni è rabbino capo della Comunità ebraica di Trieste e del Fvg, Alessandro Salonichio è presidente della Comunità ebraica di Trieste e del Fvg.
Le parole di Rumiz
di Paolo Rumiz
Quanto mi secca dover litigare con degli ebrei dopo averli difesi fin da ragazzo da gente che oggi rimane a mio avviso intimamente razzista e talvolta discende proprio da quelli (o dalla cultura di quelli) che a Trieste applaudirono le leggi razziali e denunciarono gli Ebrei ai nazisti. Mi imbarazza, e dovrebbe imbarazzare anche coloro che di quella persecuzione furono vittime.
Non sarei tornato sull’argomento per non arroventare l’atmosfera, ma non posso esimermi dal confutare l’accusa – prevedibile - del rabbino di Trieste e del capo della comunità ebraica locale, secondo la quale a me piacerebbero solo gli Ebrei disarmati, quelli che non si sanno difendere. So benissimo cosa significa vivere, come Salonichio e Meloni, sotto protezione armata da quarant’anni. E so cosa significa avere in Palestina dei vicini di casa infettati da estremisti che si augurano che Israele sparisca dalla faccia della Terra. Ma so anche cosa vuol dire vivere per mesi, anni, sotto le bombe, senza un luogo dove andare. L’ho vissuto a Sarajevo.
Resto intimamente convinto che il diritto a una terra non implica che altri non ci debbano vivere. Fondare il diritto al possesso esclusivo di una terra su un testo sacro vecchio di più di duemila anni negando nel contempo quel diritto a chi ci vive, in maggioranza, da più di mille, è di per sé un gesto fondamentalista inaccettabile per una morale laica condivisa e per il diritto internazionale.
Sulla base di quel principio ancestrale non c’è più limite. Sarebbe come se la mia famiglia, cui i comunisti di Tito hanno sequestrato una casa in Istria nel 1945, ottant’anni dopo volesse far sloggiare con violenza i nuovi inquilini, magari distruggendo i loro uliveti, senza mettere in conto la guerra voluta e perduta dal fascismo. Se davvero lo facessi con quei metodi, sarei ben conscio di innescare odio anti-italiano.
Se oggi rischio di essere schedato come ostile a Israele, questo può significare due cose. La prima è che sono cambiato, forse senza rendermene conto, illudendomi di essere coerente. La seconda è che a cambiare sono stati gli Ebrei, o una parte importante di essi. Tutto questo, a partire dell’assassinio di Rabin e, oggi, con l’ingresso in campo di Netanyahu.
La risposta di Salonichio e Meloni sembra confortare la seconda ipotesi: gli Ebrei non sono più quelli di una volta. Il che mi dà in qualche modo ragione. Il pensiero ebraico che ho amato, amo ancora e ha fertilizzato il mio pensiero, non ha niente a che fare con l’atteggiamento razzista di un governo israeliano che da prima del 7 ottobre tratta i palestinesi come popolo inferiore.
Certo, gli Ebrei in quanto tali non sono responsabili dell’antisemitismo, ma gli atti criminali dell’attuale governo di Israele – e il fatto che la maggioranza degli ebrei della diaspora non se ne dissoci abbastanza - fanno senz’altro rialzare la testa a un antisemitismo sempre latente o comunque attirano pericolosamente antipatia nei confronti di un intero popolo.
Non oserei mai negare che il 7 ottobre sia una data vergognosa, incisa a fuoco nella memoria dell’umanità. Ma questo non mi impedisce di osservare con dolore che la risposta di Israele è andata, e va tuttora, oltre ogni limite ragionevole. Una cosa è il diritto alla difesa, altra cosa è cadere nella trappola dell’aggressore con un massacro indiscriminato che fa apparire Israele sullo stesso piano dei carnefici di Hamas.
A me non piace affatto l’ebreo solo quando è mite. Ma devo chiedermi se a Meloni e Salonichio piace l’ebreo che sostiene il massacro indiscriminato ai danni di civili, e che nei Territori ammazza, confisca le terre e distrugge le case con l’appoggio dell’esercito. La mia risposta è che non lo credo possibile. Come mi rifiuto di credere che la Shoah sia un passaporto, o una giustificazione per tutto questo.
Quanto a Francesca Albanese, le sue scivolate verbali mi hanno talvolta irritato, ma mai quanto le accuse personali che l’esponente del nostro governo alle Nazioni Unite le ha rivolto e mi hanno fatto vergognare come italiano. Detto questo, il rapporto della Albanese all’Onu non è mai stato smentito nelle sue linee generali. Che sia genocidio o no, ha poca importanza. Rimane il fatto di un’ecatombe. E di un intero popolo ridotto allo stremo.
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