L’intervento, Vianello (Texa): giovani e imprese devono restare in italia

Stiamo vivendo un periodo di grandi cambiamenti. In particolare, nel settore automotive dove opera la mia azienda, è arrivata la “rivoluzione elettrica”. Texa ha pochi giorni fa inaugurato un nuovo stabilimento dedicato proprio alla realizzazione di inverter e motori elettrici per vetture ad alte prestazioni.
Ciò nonostante, la prima cosa che chiederei ai politici è una moratoria di dieci anni sulla data prevista del 2035 per la scomparsa delle vetture tradizionali.
Se per Texa è stato relativamente semplice affiancare alla propria attività principale (realizzazione di strumenti per la diagnosi elettronica dei veicoli) un nuovo ramo d’azienda per la mobilità del futuro, esistono invece tantissimi colleghi imprenditori che da decenni si impegnano nella componentistica tradizionale per motori a combustione che verranno tagliati fuori dal mercato.
Senza un forte tessuto manifatturiero e una indipendenza produttiva, qualsiasi nazione è destinata a diventare irrilevante, ed è quello che potrebbe accadere all’Italia se collassassero le migliaia di componentisti che vi operano.
Sono molto preoccupato che dopo avere permesso la vendita di brand che hanno fatto la storia, cito Pirelli e Magneti Marelli, si permetta all’industria orientale, che oggi guida la transizione elettrica, di stritolare anche migliaia di fabbriche che forniscono le case automobilistiche europee.
Un altrettanto grave pericolo è rappresentato dalla diaspora dei nostri giovani, che, dopo avere studiato in Italia, decidono di trasferirsi all’estero. Ricordiamoci che l’Italia non ha materie prime, e l’unico patrimonio su cui possiamo contare fin dagli albori della storia sono l’ingegno, la creatività e la buona volontà della sua popolazione, doti che hanno permesso di creare nei secoli capolavori tanto artistici quanto tecnici.
Dobbiamo offrire a questi ragazzi l’opportunità di dare sfogo al loro talento senza emigrare. Infine, ed è un tema su cui mi batto da tempo immemorabile, dovremmo fermare l’emorragia di aziende che delocalizzano.
Per fortuna, rispetto a un decennio fa, il fenomeno ha rallentato, perché si è iniziato a comprendere quanto insensato fosse l’assunto “la testa in Italia, le braccia in un altro paese”. Costruire all’estero significa perdere posti di lavoro in Patria, impoverire a cascata tutte le classi sociali e tradire maestranze e territorio. In più, separare la fase produttiva da quella ingegneristica non può che andare a inficiare la qualità.
Certamente, realizzando un prodotto tecnologico di nicchia, io posso permettermi di restare in Italia, e di certo non voglio colpevolizzare chi, ad esempio, realizzando magliette si è trovato di fronte alla scelta se chiudere o trasferirsi.
Dico solo che tutti gli imprenditori dovrebbero essere aiutati a lavorare onestamente in Italia, ponendo un freno alla concorrenza estera, spesso sleale perché alimentata dal “dumping”. Concorrenza che, viceversa, viene incredibilmente agevolata, come nel caso della sciagurata “via della seta”.
*Fondatore e presidente di TEXA
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