Zanetti e Costacurta a Sport Business Forum, il derby va in scena in teatro
Al teatro di Belluno per l’evento organizzato dal gruppo Nord Est Multimedia. Zanetti infiamma gli interisti, Costacurta ricorda l’epopea del Milan e riflette sul flop azzurro


Che cos’è questo incantesimo? Un campione che si è ritirato undici anni fa entra in un teatro di una bella città del Nord Est e tutto si accende, si infiamma, il teatro diventa uno stadio.
È il sortilegio del calcio, delle sue storie, l’empatia sotterranea tra certi atleti, certe maglie e certa gente.
Javier Zanetti, capitano dei sogni interisti, entra in questo strano stadio con i palchi nobili e le poltroncine di velluto. Quanto gli vogliono bene? Il 99% degli spettatori è interista. Gridano e cantano, per una notte la delusione della Champions svanisce come una lucciola tra i fili d’erba di uno dei prati bellunesi, a fine primavera. È il clou del sabato di Sport Business Forum, il festival promosso da Confindustria Belluno Dolomiti e Confindustria Veneto Est e organizzato da Nord Est Multimedia, il gruppo che edita anche questo giornale.
Intervistato da Giada Bortoluzzi e da Giancarlo Padovan, vicedirettore Nem con la delega allo Sport, Zanetti stila per gioco una classifica mista dei miti argentini e nerazzurri (Messi primo, Facchetti secondo) e poi ricorda l’arrivo a Milano, la presentazione in un diluvio universale, la soggezione verso le leggende della storia del club, e poi, piano piano, la costruzione di una storia d’amore.

«Mi è rimasta impressa una fotografia della finale di Madrid nell’anno del triplete: ci siamo noi che entriamo in campo per il riscaldamento e una muraglia di tifosi. Pensammo, e ci dicemmo: ragazzi, noi oggi non possiamo non vincere. Ogni volta che torno lì rivivo quelle emozioni. Ho tre figli e ogni tanto vedono le immagini di quei tempi. A loro mostro la partita della semifinale, contro il Barcellona. Vi giuro che ogni volta, lì, nel salotto di casa, ho paura che ci facciano gol. Ho paura che sia un sogno troppo bello e non reale».
L’uomo che alzò l’ultima coppa dei campioni per l’Italia. Una bandiera. Qualcuno ricorda che cosa significhi questa parola, riferita a una persona? «L’Inter per me è resiliente – dice Zanetti – e per vincere bisogna saper prima perdere. Io ero convinto che prima o poi il nostro momento sarebbe arrivato».
Nostalgie canaglissime, in questi giorni euroamari, fatti di cinquine disperate e di speranze demolite. Zanetti, qual è il più forte che ha dovuto marcare? «Ryan Giggs». E chi è stato il suo idolo? «Mattheus nel calcio. Ma il mio vero idolo è un altro: è mio padre, che faceva il muratore». Ovazione.
È un giorno di pensieri più che azioni, e il rapporto con il padre spunta anche in un altro incontro, quello delle 16.30 con Alessandro Costacurta.
«A diciassette anni ho perso mio padre e quella mancanza mi ha spinto a impegnarmi di più. Perché sentivo le sue parole, dentro di me. Morì quando io giocavo nella Beretti, accadde una settimana prima della partita con la Lazio. Il mio allenatore era Fabio Capello: mi forzò a tornare ad allenarmi subito, nel lutto. Devi farlo, mi diceva, e veniva a prendermi a casa per portarmi al campo».
Insomma un’altra bandiera, questa volta del Milan. Anche qui tifo e applausi. «Arrigo Sacchi – dice Costacurta – è stato il Leonardo da Vinci del calcio italiano: ha firmato un rinascimento».
E oggi? Che figuraccia ha fatto l’Italia, in Norvegia. «Noi italiani le partite importanti le vincevamo sempre. Ora non succede più. Da dieci anni. Va bene, non c’è la classe di una volta. Ma almeno il carattere vorrei vederlo. Perché non succede? Non so rispondere a me stesso. Spalletti stesso non capisce il perché. Secondo me medita di lasciare ma non deve farlo. Possibile che i fenomeni nascano tutti nel Barcellona? Per troppi anni abbiamo creduto che il calcio vero fosse qui. Abbiamo smesso di studiare. Ci siamo fermati».
Pensava di diventare il più bravo allenatore del mondo. «Provai a fare il mister a Mantova in C. Dopo qualche mese capii che non sarei diventato forte. Non avevo tutte le qualità necessarie. Volevo sempre quello che non stavo facendo: se ero a casa volevo essere al campo, se ero in allenamento volevo stare con la famiglia».
Il Psg ha vinto appena ha ceduto le sue stelle. Ma allora bisogna farne a meno? Lo chiede Padovan. «Non direi - è la risposta – ma serve la disponibilità, quella sì. Quando vedi Dembelè che fa pressing capisci che il suo mister, Luis Enrique, lo ha convinto a usare il suo talento anche così. La squadra vuole vedere un leader che nelle difficoltà aiuta gli altri».
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