Sensini racconta il suo Friuli: «Questa terra mi ha cresciuto e qui la gente mi fa stare bene»

L’argentino, quasi otto anni all’Udinese, sarà uno dei protagonisti dell’appuntamento di Gemona

Massimo Meroi
Nestor Sensini
Nestor Sensini

 

Roberto Nestor Sensini, classe 1966, è il calciatore straniero con più presenze nell’Udinese. Il suo rapporto con il club, con la città e la gente friulana va comunque oltre i numeri. È questione di feeling, di modi di intendere la vita. Nestor arrivò in Friuli nell’estate del 1989 ed è andato via, a Parma, nel novembre del 1993. Ci è tornato nove anni dopo nel 2002 per chiudere la carriera di calciatore a inizio 2006. Da allora ciclicamente Nestor torna in Friuli che considera davvero la sua seconda casa. E non a caso sarà uno dei protagonisti di Sport Business Forum venerdì 19 settembre a Gemona.

Sensini, qual è statala prima volta che sentì le parole Udine e Udinese?

«A giugno del 1989. Ero in Brasile con la nazionale argentina per disputare la Coppa America e il mio procuratore mi disse che c’era un dirigente dell’Udinese, Mariottini, che voleva parlare con me».

Cosa sapeva del Friuli?

«Allora non esisteva Google, non bastava un clic per sapere tutto e subito. Ovviamente l’Udinese era la squadra in cui aveva militato Zico e poco dopo Bertoni, un mio connazionale campione del mondo nel 1978. Tutto qui».

Lei arrivò in Italia assieme ad Abel Balbo. Il fatto di essere in due ha agevolato il vostro inserimento?

«Certo. Ricordo che ci venne a prendere in aeroporto il segretario Sigfrido Marcatti. Due giorni all’hotel Là di Moret per fare le visite e poi in ritiro a Tarvisio. Per noi era tutto nuovo, dovevamo adattarci».

Lei arrivò in Friuli tredici anni dopo il terremoto. Come e attraverso chi ha saputo di quella tragedia?

«Avevo stretto amicizia con Angelo, un signore che era emigrato in Venezuela e che aveva un panificio a Gemona. I suoi racconti mi hanno poi spinto a informarmi e documentarmi. La straordinaria opera di assistenza e di aiuto degli Alpini, i volontari e la capacità di ricostruire i paesi così com’erano in pochi anni. Sono passati quasi cinquant’anni, sembra incredibile».

Da trentanove, invece, al comando dell’Udinese c’è la famiglia Pozzo. Il suo primo ricordo del patron Gianpaolo?

«Una cena di benvenuto Là di Moret alla fine del ritiro assieme alle nostre famiglie».

Quando nel 1993, durante il mercato di novembre lei lasciò Udine avrebbe mai pensato di ritornarci?

«Era difficile immaginarlo, anche se il rapporto con la proprietà è sempre stato buono. Nel 1991, dopo la mancata risalita in A, c’era la Sampdoria che mi voleva, ma l’Udinese rifiutò l’offerta. Pozzo me lo disse: so che ti sto penalizzando, ma quando arriverà l’offerta giusta per la società e per te ti lascerò andare. Nel 2002 io avevo il contratto in scadenza, avevo già l’accordo sulla parola con Tanzi per un altro anno di contratto, ma poi arrivò Sacchi e disse che voleva ringiovanire la squadra. In quei giorni arrivò la telefonata di Gino Pozzo. Ci incontrammo a Modena, trovammo l’accordo in pochi minuti».

Al suo ritorno l’Udinese era tutta un’altra cosa rispetto a quella che lei aveva conosciuto nella sua prima esperienza.

«Nel ’90 ci allenavamo allo stadio Moretti, c’era un solo campo. Quando sono tornato c’era un centro sportivo all’avanguardia che nel tempo è stato migliorato. Da un punto di vista lavorativo e professionale un mondo completamente diverso. E anche nella scelta dei giocatori l’Udinese aveva intrapreso una filosofia che nel tempo si è rivelata fortunatissima».

L’Udinese viene riconosciuto come un simbolo del Friuli che va oltre il calcio. Perché secondo lei?

«Difficile dare una risposta. I friulani nel mondo sono tanti, ancora oggi al “Fogolar furlan” di Rosario ogni tanto vengo invitato. È qualcosa che la gente ha dentro e che è difficile da spiegare».

Perché Sensini ogni due tre anni continua a fare tappa in Friuli?

«Perché sono rimasto affezionato a questo ambiente che mi ha accolto giovanissimo aiutandomi a crescere. A Udine mi sono sposato, qui è nata mia figlia. E quando torno trovo sempre della gente che mi fa stare bene. Ai miei tempi non c’erano social, il rapporto con la gente te lo creavi con i comportamenti. Un po’ lo stesso succede a Parma. Sono due realtà che si assomigliano».

Quanto è diversa Udine dalla sua Rosario?

«Nel numero degli abitanti sicuramente: 1 milione contro 100 mila. Calcisticamente diciamo che c’è la mancanza di un rivale: il Newell’s ha il Central, l’Udinese da anni non ha più la Triestina».

Rosario è la città che ha dato i Natali a Messi. Secondo lei ci sarà al Mondiale?

«Credo di sì. Certo, non possiamo pensare di vedere il calciatore ammirato al Mondiale del 2022, se pensa a 38 anni di giocare tutte le partite la vedo difficile, ma che possa dare un contributo importante alla squadra questo sì».

E l’Udinese di oggi dove può arrivare?

«Ho visto la gara con l’Inter. È stato un tipo di partita completamente diversa da quella dell’esordio con il Verona. Sicuramente la squadra ha dimostrato di avere una buona organizzazione difensiva e l’allenatore ha il vantaggio non da poco di conoscere i giocatori. Se poi Davis starà bene sarà sicuramente un valore aggiunto».

Lei appena smesso di giocare con l’Udinese si sedette sulla panchina bianconera nel 2006.

«E fu un errore. Ragionai con il cuore e non con la testa. Non ero pronto, non avevo il patentino e non potevo andare in panchina. Ma in quel momento mi sembrò giusto dire di sì alla richiesta di Pozzo».

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