Fiona May, dalla pedana al business: «Lo sport è anche management. E ora tifo Larissa»

Due volte campionessa del mondo e simbolo dell’atletica italiana, Fiona May racconta la sua nuova vita nel business sportivo, le difficoltà per le donne manager e l’orgoglio per i successi della figlia Larissa. La nostra intervista 

Lucia Anselmi
Fiona May all'evento Sport Business Forum
Fiona May all'evento Sport Business Forum

Negli anni ’90, in Italia, il salto in lungo aveva un volto e un nome: quello di Fiona May. Due volte campionessa del mondo e ancora oggi detentrice del record italiano con la misura di 7,11 metri — stabilito 27 anni fa — May è stata, e continua a essere, un’icona dell’atletica internazionale. Nel suo palmarès spiccano due medaglie d’argento olimpiche, conquistate ad Atlanta e Sydney, e due ori mondiali, vinti a Göteborg ed Edmonton: risultati scolpiti nella storia dell’atletica azzurra.

Oggi, conclusa la carriera agonistica, Fiona May ha intrapreso un percorso nel mondo del business sportivo. Attualmente è membro del Supervisory Board di Puma SE, colosso globale dell’abbigliamento e dell’equipaggiamento sportivo.

L’intervista a Fiona May

Fiona, cosa significa per lei partecipare a un evento come lo Sport Business Forum?

«Mi fa molto piacere, perché da atleta prima e da manager oggi so quanto sport e business siano un binomio imprescindibile. Sono laureata in Economia e Commercio, quindi anche durante la mia carriera agonistica ho sempre avuto una visione ampia e consapevole di questi aspetti. Mi stupiva, anzi, notare come spesso venissero trascurati. Lo sport è indissolubilmente legato al business e finalmente possiamo lavorare affinché questa relazione cresca e si rafforzi ulteriormente».

Ci sono ancora ostacoli da superare per una donna manager nel mondo dello sport?

«Sarò sincera: non è facile. Spesso non veniamo prese sul serio. Capita di trovarsi di fronte a persone che, solo dopo avermi ascoltata, si rendono conto che padroneggio pienamente la materia e ne rimangono quasi stupite. All’inizio venivo etichettata solo come ex atleta, come campionessa».

«Far comprendere che sono anche una professionista del business sportivo non è stato semplice. E non riguarda solo me: molte donne manager, ogni giorno, devono lavorare al 150 per cento per dimostrare le proprie competenze. Il mio augurio è che i nostri sforzi aprano la strada alle nuove generazioni, affinché non debbano più faticare il doppio rispetto ai colleghi uomini per ottenere lo stesso riconoscimento».

Facciamo un passo indietro: quanto era difficile, negli anni ’90, ottenere visibilità come atleta donna, e in particolare nel salto in lungo?

«Non era affatto semplice, e credo che in parte sia ancora così. Oggi i social aiutano molto gli atleti a ottenere una meritata attenzione mediatica, ma ai miei tempi per avere visibilità bisognava vincere. Io sono stata sul podio per oltre dieci anni e, come prima donna di colore a vestire la maglia azzurra, mi sono affermata a livello internazionale grazie ai risultati e a tanto lavoro. Guardando indietro, a 25 anni di distanza, vedo il percorso che ho fatto e ne sono orgogliosa».

«Ma ricordo bene quanto fosse dura per noi donne atlete ottenere rispetto e riconoscimento. Oggi, però, sono contenta di vedere quanta più attenzione venga riservata ai nostri azzurri, protagonisti di successi straordinari, non solo in Italia ma anche all’estero».

È stata la prima donna di colore a vestire la maglia azzurra della FIDAL. Ha mai vissuto episodi di razzismo?

«No, nell’atletica non c’era e non c’è razzismo. Ci tengo a dirlo chiaramente: io non mi sento una vittima, perché non siamo noi le vittime, sono i razzisti a dover vergognarsi. Detto ciò, mi rendo conto che se da un lato i social hanno dato grande visibilità agli atleti, dall’altro hanno amplificato episodi e commenti razzisti. Sentire dire che un atleta “non è italiano” solo perché i suoi genitori sono nati all’estero, è assurdo. E questa è una mentalità che, purtroppo, ho riscontrato solo qui. All’estero, in Paesi come Inghilterra o Germania, nessuno si sognerebbe di fare affermazioni simili».

Sua figlia Larissa è arrivata a un soffio dal battere il suo storico record nel salto in lungo. Cosa ha provato?

«Le ho detto subito: “Finalmente!”. Sono orgogliosa e felicissima. Il mio record resiste dal 1998 è ora che qualcuno lo batta. E sono davvero contenta che sia stata proprio mia figlia ad avvicinarsi così tanto a poterci riuscire. Adesso, però, deve superarlo: ci conto, almeno resta in famiglia (ride)».

Se potesse parlare alla Fiona bambina cosa le direbbe?

«Le direi di non mollare mai. Di continuare a lottare con coraggio, senza paura, perché i risultati arriveranno. Se potessi parlarmi oggi da adulta, mi incoraggerei ad avere ancora più fiducia in me stessa e nelle mie capacità».

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