Deborah Compagnoni e i troppi malanni: «Ma sono contenta di quello che ho avuto»

La testimonianza della tre volte medaglia d’oro in tre diverse edizioni dei Giochi, che sarà ospite a Sport Business Forum a Gemona: «Forse avrei potuto fare un altro paio di stagioni»

Giancarlo PadovanGiancarlo Padovan
Deborah Compagnoni, tre medaglie d'oro ai Giochi Olimpici
Deborah Compagnoni, tre medaglie d'oro ai Giochi Olimpici

La voce e le parole di Deborah Compagnoni sanno di buono e di pulito. Di recente ha scritto un libro intitolato «Una ragazza di montagna», ma se qualcuno la chiama scrittrice la fa sussultare.

«Mi sono limitata a raccontare la mia infanzia, la mia vita di bambina con le sue esperienze e, magari, anche per spiegare perché le cose siano andate così. C’è anche qualche riflessione sui ragazzini di oggi, su come tutto sia cambiato. A me sembra siano un po’ troppo pressati e ipercurati nello sport. E questo non è un bene, perché si finisce per togliere loro un po’ di libertà».

Deborah, la sua carriera è stata una piccola via crucis che l’ha vista raggiungere la perfezione in slalom gigante, passando attraverso mille sofferenze. Riesce ad identificare un momento specifico di svolta in questo percorso?

«Io ho avuto più periodi caratterizzati da infortuni gravi: il 1988, il ’90, il ’92. L’interruzione di questa serie negativa la possiamo situare dopo la rottura del ginocchio ad Albertville. Lì ho deciso di non fare più discesa libera e di fare solo qualche superG, dedicandomi così più agli slalom. Il gigante mi riusciva già bene, lo speciale a me non piaceva tantissimo, però mi sono imposta di lavorare anche in quella disciplina, in modo da riuscire bene in due. A quel punto già era cominciato a cambiare qualcosa».

Poi, però, successe qualcos’altro?

«E’ successo che negli anni a venire ho ottenuto una squadra mia personale, con un allenatore che era Pietrogiovanna, mio fratello il suo aiuto e, nello staff, avevo uno skyman e una fisioterapista solo per me. Oltre alla mia manager Giulia Mancini che da allora è ancora al mio fianco».

Non aver mai vinto la Coppa del mondo generale è un rimpianto che la tormenta?

«Da ragazza non ci pensavo tanto, ero già molto gratificata dalle gara che vincevo, dal momento che stavo vivendo, perché comunque arrivare a certi livelli non è così scontato. Quando sei giovane, è tutto bello. Poi ho avuto gli infortuni, per cui la scelta di non fare la discesa ha compromesso la Coppa del mondo di quell’anno e di quelle a venire. Magari la mia carriera sarebbe completamente cambiata, ma non si può dire».

Nello slalom gigante di Coppa del mondo svoltosi a Park City, il 21 novembre 1997, lei inflisse alla seconda classificata, l’austriaca Alexandra Meissnitzer, un distacco record in una gara di sci alpino: 3”41. Ritiene che sia stata questa la sua gara migliore?

(ride) «Era l’esordio di Coppa del mondo del ’97...»

3”41 è un’eternità.

«Non mi sono resa conto neanch’io di essere andata così forte. O forse erano le altre che, in quel periodo, non andavano tanto. Probabilmente ero all’apice della mia carriera, ero in forma, contenta di come stavo sciando. Ci sono gare così: tu vai forte e le altre un po’ meno».

Lo stesso ordine d’arrivo, seppur con distacco dimezzato, ma comunque mostruoso, si ripeté tre mesi dopo alle Olimpiadi di Nagano. Fu la sua ultima vittoria. Quel trionfo, che suggellò un quadriennio perfetto in slalom gigante, sembrerebbe averla privata di motivazioni future. Fu così?

«No, non credo. Io mi infortunai al ginocchio in estate al Passo del Tonale durante un allenamento, perciò rallentai la preparazione della stagione ’99. Quando ripresi avevo male al ginocchio e alla schiena, i materiali delle altre atlete erano diventati più performanti, molto mi sembrava cambiato. Forse, ripensandoci, avrei dovuto prendermela con maggiore tranquillità, testare i materiali nuovi, ritrovare un po’ di condizione. Poi, però, mi sentivo stanca e alla fine decisi di smettere. Sa qual è la verità?».

No, racconti.

«E’ che vent’anni fa, una trentenne si sentiva già un po’ vecchia. Poi le pressioni non aiutavano. Non che adesso ce ne siano di meno, però le atlete durano di più. Ecco, forse, anch’io avrei potuto fare un altro paio di stagioni».

Parliamo della Deborah di oggi. La campionessa ci sarà sempre (tre ori olimpici in tre edizioni diverse), ma esiste anche la donna impegnata in molteplici attività.

«Essere stata campionessa, mi ha dato tante possibilità. Però, appena smesso, per vent’anni, mi sono dedicata alla famiglia e ai miei figli. Anche se ci sono stati degli eventi ai quali ho partecipato. Ad esempio alle Olimpiadi di Torino ho fatto la tedofora e, quando è stata creata la Fondazione Milano-Cortina, sono diventata Ambassador».

Non solo, però

«Tante idee, tanti progetti. Tra i quali quello di disegnare una linea di abbigliamento da sci per l’azienda Oviesse, il marchio si chiama Altavia. Linea tecnica, ma di qualità, un buon prodotto, in controtendenza per quel che riguarda il prezzo, che è accessibile. Già lo sci sta diventando una disciplina d'élite, se almeno l’abbigliamento ha costi accessibili non può che essere un bene».

Però c’è anche una Deborah legata al sociale.

«Al sociale mi sono dedicata da subito, appena smesso di gareggiare. Ho fondato un’associazione che è “Sciare per la vita” che si occupa della cura e della ricerca di malattie pediatriche ematologiche e oncologiche, ma sempre in ambito pediatrico. Abbiamo sviluppato anche un bellissimo progetto legato alla disabilità. Siamo stati la prima associazione a donare carrozzine per accedere nei rifugi, dove chi scia avrebbe altrimenti delle difficoltà ad arrivare. Insomma la montagna resta il mio habitat. Da lì vengo e lì voglio rimanere». 

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