Caterina Banti, la vita di una leggenda oltre la vela
La campionessa ospite all’anteprima triestina di Sport Business Forum: «Il segreto dei miei successi con Tita stava nel rispetto che c’era tra noi»

«Meglio tardi che mai». È una frase che Caterina Banti ha ripetuto spesso, per sintetizzare in quattro parole una carriera in cui ha vinto tutto. Quella tra lei e la vela è una liaison iniziata tardi rispetto agli standard, a 22 anni. Una scoperta quasi improvvisa, che non le ha però impedito a 34 anni di vincere l’oro olimpico a Tokyo 2020 (il primo per i colori azzurri dopo quello di Alessandra Sensini ad Atene) e poi di ripetersi ai Giochi di Parigi.
Sempre a bordo di un Nacra 17, sempre in coppia con Ruggero Tita. «Il nostro segreto? Essere sempre rispettosi gli uni con gli altri, valorizzando i nostri punti di forza per arrivare a un obiettivo comune. Se ci definiscono iper-pignoli e precisi non è un caso perché nel nostro sport, come in tutti gli altri, sono i dettagli a fare la differenza tra il successo e il fallimento».
Parlando dei suoi successi (oltre ai due ori olimpici, anche quattro trionfi mondiali e altrettanti europei) Banti si guarda indietro, visto che dopo il trionfo di Parigi ha deciso di ritirarsi dall’attività agonistica, iniziando una nuova fase della sua vita. Che ha voluto raccontare ieri negli spazi di Trieste Campus per chiudere in bellezza l’anteprima triestina di Sport Business Forum. «Ho tanti progetti davanti a me, forse pure troppi – ha ammesso –. Mi sono voluta rimettere in gioco subito con qualcosa di nuovo: mi servono sempre nuove sfide, sennò mi sento persa».
In effetti, negli ultimi mesi l’agenda di Banti si è fatta molto fitta: un master alla Luiss di Roma in Public Affairs & External Relations, un corso in Management Olimpico al Coni e un ruolo come consigliere nazionale nella Federazione Italiana Vela. «Voglio solo ridare allo sport quello che ha saputo dare a me in tutti questi anni». Senza dimenticarsi, ogni tanto, di riammirare le due medaglie d’oro vinte alle Olimpiadi. «In realtà non lo faccio così spesso, preferisco tenerle nascoste – rivela –. Per me hanno un valore inestimabile perché rappresentano il punto d’arrivo di un percorso difficile, affrontato sia da sola che con Ruggero».
Il suo incontro con Tita è stato un momento chiave, un punto di cesura che l’ha messa di fronte a tanti cambiamenti. «Innanzitutto, ho dovuto adattare il mio corpo alla vela, anche solo per salire sul Nacra 17 con un’altra persona. Per me poi, avendo iniziato più tardi rispetto alla media, si è trattato di dover bruciare le tappe, di imparare velocemente cose che gli altri conoscevano da una vita intera».
Agli ori olimpici vinti in coppia con Tita, Banti dà due definizioni diverse. Tokyo fu una scoperta, Parigi quello della maturità e della consapevolezza. Ma dietro una doppietta storica per lo sport italiano, ci sono stati tre anni durissimi, soprattutto sul piano mentale. «Il periodo immediatamente successivo al trionfo giapponese fu il peggiore, con Ruggero ci siamo chiesti più volte “E adesso?” – spiega la campionessa romana –. Rivincere è infinitamente più complicato che vincere. E dopo il secondo trionfo, mi sono guardata dentro e ho capito che continuare sarebbe stata la scelta più coraggiosa». Ma non esclude possibili colpi di scena. «Ai Giochi di Los Angeles mancano tre anni, faccio sempre in tempo a tornare».
Nel parlare di Olimpiadi, Banti dà definizioni opposte e allo stesso tempo complementari. Da un lato è qualcosa che richiedere un impegno totalizzante, ma in fondo rimane un gioco, a cui va dato il giusto valore. Qui, il suo messaggio si rivolge soprattutto ai più giovani, desiderosi magari di approcciarsi al mondo della vela. «Divertitevi, e siate vogliosi di imparare e di sbagliare, senza farsi condizionare da una diffusa cultura di puntare il dito contro ogni errore, come se il 10 in pagella fosse l’unico risultato accettabile».
Nella sua nuova veste più istituzionale, Banti vuole mettersi in gioco per migliorare in modo concreto il mondo della vela e dello sport in generale. Un primo obiettivo è far sì che nei circoli e nelle associazioni, oltre ai tradizionali allenamenti, venga dato un supporto psicologico che aiuti ragazze e ragazzi nella loro crescita. In questo senso, dato che si tratterebbe di una spesa difficile da gestire per la maggior parte delle realtà, si sta cercando di dare una formazione ai tecnici, con corsi ad hoc, capaci di dare strumenti essenziali. «L’importante è che si capisca che tutti abbiamo un potenziale, ma ognuno ha bisogno del proprio tempo per farlo: il mio, sportivamente, l’ho tirato fuori a 34 anni». Insomma, meglio tardi che mai.
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