Dove la violenza si ferma: viaggio nella rete che protegge le donne
In Veneto, “Aiuto donna” dell’Usl 3 Serenissima accoglie ogni anno decine di vittime di abusi, offrendo cure mediche, supporto psicologico, protezione immediata e percorsi di ricostruzione. Dall’Obi del Pronto soccorso ai servizi sociali, fino ai programmi per rieducare gli uomini violenti

Sono tutte donne, che si mettono a servizio delle altre, vittime di violenza, per aiutarle a riemergere da una quotidianità asfittica, fatta di controllo, minacce, botte. Sono tutte donne, le professioniste che compongono la rete Aiuto donna dell’Usl 3 Serenissima, attivata nel 2020 con la firma del protocollo territoriale, su spinta della Regione Veneto, oggi con 80 soggetti coinvolti tra pubblici e privati.
Donne che tengono l’albero nel vento, danno certezze, sicurezza, attivano le procedure con le altre istituzioni per proteggere le vittime e i loro figli, per assicurare loro un domani diverso. Psicologhe, assistenti sociali, ginecologhe, infermiere e dottoresse di varie specialità fanno quadrato per cercare di aiutare tutte le donne che passano dagli ospedali dell’azienda sanitaria e chiedono aiuto, chi con la voce e chi con la geografia di lividi e fratture sul proprio corpo.
«Da soli non si va da nessuna parte», premette Anna Fiore, responsabile dei consultori dei distretti del Miranese e Chioggia e coordinatrice del tavolo di lavoro sul Piano di zona, «lo dobbiamo fare per tutte quelle donne che hanno perso la vita e per quelle che sono in situazioni di pericolo e potrebbero perderla da un momento all’altro», aggiunge.
Il Pronto soccorso: un rifugio sicuro
La rete vede nel Pronto soccorso il suo cuore pulsante: d’altronde, spiega la primaria del reparto di Mestre, Mara Rosada, «è spesso la prima frontiera per intercettare le donne che vivono situazioni di violenza». Proprio per questo, in tutto il Veneto le sale per l’osservazione breve intensiva (Obi), solitamente dedicate ai pazienti le cui condizioni cliniche devono essere monitorate, possono diventare dei veri e propri rifugi per le donne.
«Circa il 16% di quelle che vengono identificate come vittime di violenza chiede protezione nell’Obi», fa sapere Rosada. Di fatto, per evitare che la donna torni a casa con il partner mentre viene attivato il protocollo con il Cav, vengono garantite le prime ore nel rifugio sicuro dell’Obi. Ore che possono fare la differenza. Dei 130 casi annui che passano dal Pronto soccorso, tra le 20 e le 25 donne vengono ospitate nell’Obi.
Tra il Pronto soccorso e il centro antiviolenza, poi, è stato inserito anche un passaggio intermedio, il Pronto intervento sociale del Comune, con cui la donna può essere messa in contatto. «Il triagista che intercetta un possibile caso di violenza di genere, propone alla paziente il colloquio con l’operatore, che la donna può rifiutare». Circa il 35% dice di no, ma spesso perché sono già in contatto con il Cav. Altre volte, però, alla base del rifiuto c’è la paura.
Ginecologia: lavoro d’équipe per le vittime di stupro
Tra i soggetti coinvolti nella Rete, ci sono anche i reparti di Ostetricia e ginecologia, che entrano in gioco nei casi di violenza sessuale. Un ruolo delicatissimo e fondamentale, non solo nell’offrire cure mediche ma anche al fine del raccoglimento delle prove forensi.
«Quando una donna vittima di violenza sessuale arriva da noi» spiega Elisa Saccoman, coordinatrice infermieristica del reparto dell’ospedale All’Angelo, «attiviamo la procedura trasversale con i vari soggetti coinvolti. Le diamo un immediato supporto medico, curando le lesioni e facendo la profilassi per le malattie sessualmente trasmissibili, raccogliamo le prove, dal Dna ai fluidi, e garantiamo un supporto psicologico».
I servizi sociali: un aiuto per i figli
Dietro molte storie di violenza di genere, ci sono bambini e ragazzi che, a volte per anni, sono cresciuti respirando aggressività e paura.
«La violenza assistita», spiega Nicoletta Codato, coordinatrice degli assistenti sociali del Servizio Infanzia, adolescenza e famiglia dell’Usl 3, «è diventata a tutti gli effetti un reato ed è un fenomeno che esiste e a cui bisogna far fronte. Capiamo se il minore ha bisogno di una valutazione neuropsichiatrica: dopo anni cruciali per lo sviluppo psicofisico trascorsi in un clima di violenza fisica e verbale, il rischio è che introiettino gli stessi schemi e modalità comunicative».
I consultori: baluardi contro la violenza da 50 anni
Nati nel 1975 per un’esigenza sociale e politica, figli delle contestazioni femministe, in questi 50 anni i consultori non hanno mai smesso di mettere al centro il concetto di salute globale della donna.
Nonostante in tutt’Italia siano spesso inferiori rispetto alle reali necessità del territorio e indeboliti da anni di sottofinanziamento cronico, i consultori restano a tutti gli effetti un baluardo contro la violenza di genere.
«Quelli dell’Usl 3 sono 16», fa sapere Daniela Tardivo, psicologa responsabile dei consultori dei distretti del centro storico e della terraferma, «i nostri professionisti entrano anche nelle scuole con programmi di educazione affettiva e sessuale nelle terze medie, insistendo sul fatto che l’amore è rispetto, delicatezza, accoglienza, incidendo così sull’aspetto culturale».
Gruppo responsabilità uomini: numeri in crescita
La violenza di genere, diciamolo, è una questione maschile. Soprattutto negli ultimi anni, i giudici e i questori stanno insistendo sulla necessità di rieducare gli autori di maltrattamenti nei confronti delle donne. Così, sempre più spesso, dopo aver ricevuto un ammonimento, vengono inviati al Gruppo responsabilità uomini dell’Usl 3 e della cooperativa Iside, al distretto sociosanitario di via Tommaseo, a Marghera, per avviare un percorso per riconoscere e abbandonare i loro schemi violenti nei confronti delle partner.
Se nel 2024 i nuovi contatti da parte degli uomini erano stati 18, nel 2025 le nuove richieste sono schizzate a 63. «Un aumento importante, anche degli arrivi su base spontanea», spiega Tardivo. Nonostante i numeri raccontino l’urgenza di incidere su questo fenomeno e suggeriscano, di rimando, il bisogno di implementare i fondi, quelli della Regione del Veneto sono bloccati da due anni. A venire in aiuto al servizio, e quindi alle donne, sono stati i sindaci del territorio.
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