Suor Miriam: «Il disagio dei ragazzi figlio di quel benessere che ha perso i valori»

La religiosa guida da 34 anni a Padova un centro per mamme e bimbi in difficoltà: «L’ispirazione è quella degli insegnamenti delle comunità cristiane primitive»

Sabrina Tomè
Suor Miriam nel ritratto di Massimo Jatosti
Suor Miriam nel ritratto di Massimo Jatosti

«Vorrei dire una cosa prima di tutto».

Dica Suor Miriam.

«Io non mi sento una protagonista, ma una persona che si è incontrata con momenti sociali, spirituali e umani. Ed è così che è venuta l’ispirazione di creare una comunità di accoglienza per donne e bambini in difficoltà. È stata una nuova chiamata, dopo la prima, quella vocazionale».

Come è arrivata la chiamata religiosa?

«Direi che ha contribuito la mia famiglia, in particolare mia mamma Angela che aveva grandissima fede. Poi gli incontri, quelli con le suore e con i gruppi di preghiera. E c’è un’altra cosa: sono nata nel 1939, ho conosciuto la sofferenza della guerra. L’ho incontrata, la guerra, un giorno che quattro o cinque uomini con tabarro scuro e baionette sono entrati in casa nostra e hanno iniziato a colpire con quelle i materassi. Ero sconcertata, chiesi a mio papà cosa stessero facendo: mi rispose che cercavano persone nascoste. Se ci fossero state... quella lama le avrebbe colpite».

A 12 anni è entrata in una casa di suore, era poco più di una bimba.

«All’epoca molte famiglie volevano proteggere le figlie dalla povertà, ma nel mio caso ho sentito tra quelle suore orsoline di Breganze la bellezza. Ho vissuto molti anni con loro. Si coltivava la vita insieme, la preghiera, la conoscenza della Bibbia. Tutto ciò è valso a una formazione e anche a una scelta. Se dalla mia famiglia naturale ho ricevuto il bene, da quella religiosa ho avuto il più: la gioia di vivere e di appartenere al Signore. La congregazione mi ha preparata allo studio, ho frequentato la scuola magistrale per diventare educatrice. Ho insegnato 41 anni».

È lì, negli anni dell’insegnamento, che è venuta a contatto con i bimbi di cui poi si è sempre occupata?

«Ho visto bambini soffrire affettivamente, ho visto la povertà, la fragilità. Ci è voluto coraggio per avviare il progetto, ma ho trovato persone che mi hanno invogliata e sostenuta».

Casa Priscilla a Padova è un punto di riferimento per l’accoglienza di mamme e bambini vittime di maltrattamenti, violenze domestiche, disagio economico. Quanti persone ci sono in questo momento?

«Undici mamme e 50 ragazzi. La comunità è nata nel 1991 e penso che anche per questo progetto la mia famiglia mi abbia influenzata».

In che modo?

«Nella nostra povertà il cibo veniva condiviso, se qualcuno stava male lo si andava a consolare. C’erano anche i litigi, certo, ma io ricordo molto più numerosi i gesti buoni, la vita bella della corte. È stata l’esperienza della condivisione a ispirare la comunità e l’Oasi di Spiritualità. È l’ispirazione alla vita delle prime comunità cristiane, il riprendere quella vita fondata sulla fraternità, spezzando il pane, al servizio dei fratelli».

Papa Francesco ha cercato di rivoluzionare la Chiesa proprio guardando al cristianesimo primitivo. Ma ha trovato parecchi ostacoli, e lei?

«Ho trovato grandi difficoltà, succede anche adesso (sospiro, ndr). Guardi, io mi ritrovo con la figura di Papa Leone: sono partita dal niente, dalla povertà, dai disagio dalla fragilità, dallo scarto».

È partita dai ragazzi disagiati, c’erano allora e ci sono oggi. E oggi ci sono anche giovani che girano con i coltelli in tasca e che lanciano sondaggi sui telefonini sui femminicidi chiedendo quale donna meriti di morire. Cosa sta succedendo?

«Ho vissuto gli ultimi cinque anni di insegnamento con tanta sofferenza. E sa perché? Perché ho visto all’improvviso il cambiamento delle famiglie, ho visto genitori che si adagiavano sul benessere, sull’avere tutto. E più nessuna disponibilità ad affrontare il sacrificio. A distanza di tempo, osservando i nostri ragazzi, dico che il problema parte dal benessere di allora. È sfuggita la cognizione dello stesso. Ricordo ancora la frase di un padre che disse al figlio “tu non sei in mezzo agli straccioni, tu hai i soldi, hai tutto” e io intervenni affermando che questo non era educare il figlio, ma annientarlo. Concedi, concedi e concedi e guarda alla fine dove siamo arrivati. E poi c’è il problema del cellulare».

Che problema c’è con il telefonino?

«Fino ad alcuni anni fa lo si usava solo per chiamare, oggi c’è un uso distorto perché lì si trova di tutto, senza che nessuno intervenga a mettere degli argini, dei filtri. Quanto ai ragazzi con i coltelli, io mi metto al posto delle mamme: è una grande sofferenza vedere che deviano. Lo capisco, è successo anche con alcuni dei nostri giovani: sono cresciuti qui, poi sono usciti e si sono persi. Ma non abbiamo mai mollato, con i nostri volontari abbiamo continuato a seguirli. E siamo riusciti a recuperarli».

Dia un consiglio agli insegnanti, forte della sua esperienza.

«Hanno un compito molto difficile perché le famiglie sono spesso assenti sulle radici, sull’insegnare i valori di base: lealtà, rispetto, educazione, accoglienza. E così i giovani sono disorientati».

Servirebbe un patto genitori-insegnanti?

«Il genitore deve avere fiducia nell’insegnante, che sa cosa deve fare. Posto naturalmente che sia preparato e consapevole che il suo è un ruolo sacro, che accoglie, conduce e forma. Per quanto ci riguarda abbiamo portato la nostra esperienza nelle scuole, è successo allo Scalcerle di Padova, dove siamo rimasti una settimana. Ecco, iniziative di questo tipo possono essere formative; non si può lavorare solo in terapia, ma anche facendo prevenzione».

Abbiamo parlato delle difficoltà dei ragazzi del “nostro” mondo. Altrove ci sono bimbi che vengono uccisi, quasi 20 mila a Gaza secondo alcuni numeri. Perché non riusciamo a fermare tutto questo?

«Cosa fanno i Grandi del mondo? Io mi rifaccio a loro: cosa fanno, come intervengono di fronte al blocco degli aiuti umanitari, di fronte ai bambini uccisi? Mi auguro che vengano accolti gli insegnamenti di Papa Francesco e di Papa Leone».

Che pontificato sarà quello di Leone?

«A mio giudizio continuerà con il motto di Papa Francesco, forse con un altro stile, il suo stile. Uno stile forte, perché ha parlato forte, Leone».

Lei ha ricevuto il premio della bontà di Sant’Antonio: ci dica cosa dobbiamo fare per esserlo un po’ di più, tutti noi.

«Provvidenza, accoglienza, servire e non essere serviti, amare la vita, essere gioiosi, vedere il bello. Il premio di Sant’Antonio è merito di un percorso fatto da molte persone, che si sono date con gratuità, come dono. Il premio dà credibilità al bene ed è quello che c’è anche nella nostra Oasi di Spiritualità. Il sapersi dare e il credere nelle persone che stanno davanti a te: questi sono i fondamenti del bene. E poi accettare anche i propri limiti».

Quali limiti ha lei suor Miriam?

«Mi aggrappo alle mie idee».

Casa Priscilla e il premio Bontà di Sant’Antonio

Maria Parolin, ovvero Suor Miriam, 86 anni, è nata a Borso del Grappa; ha vissuto successivamente con la famiglia a Romano d’Ezzelino nel Vicentino. Insegnante, si è distinta fin da subito per il suo impegno a favore dei bambini e delle madri in difficoltà avviando già dal ’91 una prima comunità educativa. Nel 2001 nasce il centro di accoglienza Casa Priscilla che ha sede a Padova e che oggi sorge in un’area di 1.300 metri quadri in via Vlacovich. Suor Miriam ha ricevuto il Premio Bontà di Sant’Antonio e il premio Melvin John Fellow da Lions Club International.

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