Valeria Sanzari: «In magistratura seguendo l’ideale di riparare i torti»
Giudice e poi pubblico ministero, ha risolto i casi criminali più difficili tra cui l’eccidio di Gorgo al Monticano, in provincia di Treviso: «Era una promessa ai cittadini». E alle giovani future toghe: «Date lustro allo Stato senza protagonismi e arroganze»

Valeria Sanzari, per Aristotele la giustizia è la virtù perfetta, per Masters una figura bendata dagli occhi corrosi. Lei ha scelto la magistratura per realizzare la prima visione o per smontare la seconda?
«Ho scelto il mio sogno: mi sono iscritta a Giurisprudenza per fare il giudice. Avevo la visione tipica dei giovani e un ideale da seguire: ripristinare la pace sociale, tutelare i deboli, riparare i torti. Una superwoman, insomma. Mi era estranea la diaspora filosofica del concetto di giustizia, lascio ai filosofi queste astrazioni. Sia quando perseguivo l’ideale, sia quando poi sono diventata magistrato, ho basato la mia attività su alcuni binomi: lecito-illecito, legale-illegale, diritti-doveri, giuridicamente corretto o meno. Sempre con l’obiettivo del ripristino delle regole convivenza».
Lei è stata la pm dell’inchiesta sull’eccidio di Gorgo al Monticano, uno dei crimini più violenti e difficili per Treviso e il Veneto. Cosa ricorda?
«Due momenti in particolare. Il primo era l’alba di agosto ed ero di turno: mi chiamarono e andai nella casa del delitto. C’erano i carabinieri, due giovani tenenti, il comandante del Nucleo operativo e il colonnello Nardone. Quando vidi quei corpi, passò fra noi una sorta di corrente: l’impegno a catturare gli assassini, dovevamo assolutamente prenderli. E poi l’altro momento: l’emozione quando, alle 4 del mattino, telefonai al procuratore Fojadelli e gli dissi: li abbiamo presi».
Caso risolto in pochi giorni. Cosa ha permesso questo risultato da manuale?
«Le indagini furono molto pressanti, si collaborò gomito a gomito. Furono analizzati i tabulati dei telefonini attivi in zona, nell’ora del delitto; monitorata la tessera bancomat sottratta alla vittima; scandagliato i fossati cercando le armi; fatto i controlli stradali. Furono prese in considerazioni tutte le ipotesi. E la scienza non ci aiutò, anzi, ci stava fuorviando: l’analisi genetica evidenziò un vincolo familiare con un altro nucleo che in realtà nulla c’entrava. Blindammo le indagini, perché ogni piccolo particolare avrebbe potuto aiutare gli assassini. La svolta arrivò con l’intercettazione di una delle utenze attive la notte del delitto; emerse il contatto con due correi che si rivelarono autori del delitto, apprendemmo di un incontro a Gorgo, con l’obiettivo di far tacere il più giovane dei tre. Eravamo in sala intercettazioni, sentimmo i carabinieri intervenire. E, con la confessione successiva, sapemmo di aver adempiuto alla nostra promessa».
Caso Ardia: lei scoprì che dietro un incidente stradale a Treviso si nascondeva un tentato femminicidio. Il marito fu condannato a una pena severa, come quelle per altri femminicidi. Che però restano un’emergenza: cos’altro può fare la giustizia?
«Ho la sensazione che il legislatore penale non abbia più un rilevante margine di manovra e che abbia fatto tutto quello che poteva fare: previste tutte le ipotesi di violenza fisica e psicologica, incrementato le sanzioni, regolamentato i tempi delle indagini, coordinato il procedimento penale con quello eventualmente pendente in sede civile. Ci sono sicuramente aspetti ulteriori e concreti, per esempio stanziare più fondi per far funzionare il braccialetto elettronico. Ma quello della violenza di genere è un fenomeno culturale e come tale spesso indifferente al regime sanzionatorio. Uno stalker non interrompe la sua condotta perché ha paura della sanzione. Servono altri interventi, educativi. Occorre riportare nei bambini il valore del rispetto: per le persone, le donne, gli anziani. Il compito è immane, ma senza questa educazione non si arriverà a eliminare il fenomeno».
Ora è procuratore aggiunto a Venezia. Come giudica le critiche alla sentenza su Filippo Turetta per il passaggio sul fatto che non ci fu crudeltà?
«Le critiche di popolo, inteso nell’accezione latina del termine, come non esperto del settore, sono deleterie. Hanno una conoscenza solo parziale degli atti, le critiche sono basate sull’emotività e quindi non appaiono rispettose della professionalità dei giudici. Le sentenze vanno eseguite e non discusse. Per il caso specifico: non conosco tutti gli atti, mi astengo da valutazioni. Ma il collega che ha seguito il procedimento ha proposto impugnazione contro la sentenza, in particolare sul mancato riconoscimento della crudeltà che è stata contestata sia sotto il profilo giuridico che fattuale».
Ancora giustizia e donne: il caso delle famiglie arcobaleno. Nel 2023 lei, procuratore aggiunto a Padova, impugnò 33 atti di nascita di altrettanti bimbi con due madri. Ci sono state molte proteste di piazza e la Corte costituzionale ha dato ragione alle mamme. È sempre convinta della sua scelta?
«Il dovere di ogni magistrato è di valutare se la condotta sottoposta al suo esame sia giuridicamente corretta. Quando il prefetto di Padova ha segnalato in Procura che 33 atti di nascita erano a suo avviso irregolari perché redatti in difformità dalla legge, ho fatto la sola valutazione consentita a un magistrato: se l’ordinamento vigente consentisse o meno le difformità indicate dal prefetto. Non c’è stata alcuna considerazione politica o ideologica, ma solo di conformità al diritto vigente. E quella conformità non sussisteva. Successivamente la Corte Costituzionale ha modificato la normativa sul punto, rendendo lecito quello che prima non lo era».
Le donne: molte in magistratura, poche alla guida di procure e tribunali.
«La presenza delle donne in magistratura è ormai prevalente. Premetto che non penso che le scelte del Csm siano ispirate al genere, ma esclusivamente alla carriera. E si stanno aprendo posti direttivi e semidirettivi alle donne, con una presenza importante in Veneto. Il problema è un altro: la carriera dirigenziale va costruita: non basta essere un bravo giudice, richiede a volte trasferimenti o disponibilità ad assumere impegni ulteriori. Spesso le donne non possono compiere questi piccoli passi a causa degli impegni familiari che gravano su di loro».
Lei è stata sia giudice che pm. Separazione delle carriere sì o no?
«Sono stata tanti anni gip e tanti pm. E questa esperienza mi porta a contestare il progetto di separazione. Il pm svolge un compito in cui è essenziale la sua terzietà. Lo è in tutta la fase istruttoria e poi nella decisione se esercitare o meno l’azione penale. Con la separazione delle carriere, il pm verrebbe a essere completamente estraneo e quindi sradicato da questo imprinting culturale. Per fare il gip occorre che il magistrato abbia fatto almeno due anni di dibattimento, lo stesso dovrebbe essere per i pm: prima acquisiscono la terzietà, poi possono fare il pm. Fare il gip mi ha arricchito tantissimo: ha radicato in me il rispetto per le parti e la collaborazione con i difensori. Davvero chi vuole la separazione vuole il super poliziotto che diriga le indagini e decida se esercitare o meno l’azione penale? E questo con tutto il rispetto per le forze di polizia che svolgono egregiamente le loro funzioni, ma sotto il coordinamento del pm che ha un ruolo di garanzia per l’indagato. Davvero si vuole che sia un organo politico a fare le scelte sui reati da perseguire e con quali modalità e intenti? Lascio ad altri la risposta».
La giustizia, con un problema di personale ormai cronico e una digitalizzazione realizzata solo in parte, rischia di avere armi spuntate?
«La carenza di personale nelle Procure si traduce in una quotidiana partita a scacchi: il personale deve essere di volta in volta spostato in base alle esigenze prioritarie. Quanto al programma informatico, è stato predisposto da tecnici che non conoscevano le regole delle procedure, le esigenze del pm e cosa deve fare. Il ministero sta ora intervenendo per riallineare le esigenze. Nel frattempo: se si blocca il sistema, cosa che avviene ogni settimana, l’attività resta ferma. Non abbiamo mezzi: la sensazione è che il buon funzionamento della giustizia non rientri nelle priorità. Si fa quel che si può, con i mezzi che abbiamo».
Il ringraziamento più bello che ha ricevuto. E uno che vorrebbe fare.
«La cosa più gratificante è quando percepisco il rispetto nei miei confronti, per come ho svolto e svolgo i miei compiti. Sono in magistratura da 40 anni, ricordo tutte le persone che hanno collaborato con me, sia il personale amministrativo che di polizia giudiziaria. Il loro lavoro è stato essenziale per consentire il mio».
Un consiglio ai giovani che vogliono entrare in magistratura.
«Ricordino che saranno pubblici funzionari investiti di funzioni di prestigio, ma sempre al servizio dello Stato. Con il loro comportamento devono portare lustro allo Stato e rifuggire da protagonismi e arroganze, rispettando sempre, le altre parti e tutti i protagonisti delle vicende umane che tratteranno nella loro attività».
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Chi è
Valeria Sanzari ha iniziato la carriera in magistratura come pretore, diventando poi giudice delle indagini preliminari a Treviso e quindi pubblico ministero, sempre a Treviso.
Nel 2007 ha risolto il caso di rilevanza nazionale delle “belve di Gorgo”, il massacro di due custodi di una villa durante una rapina, coordinando le indagini che portarono alla condanna dei responsabili.
Nel 2015 è diventata procuratore aggiunto alla Procura di Padova dove, tra l’altro, ha seguito la vicenda delle famiglie arcobaleno. Dal 2023 è procuratore aggiunto alla Procura della Repubblica di Venezia.
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